L’antifascismo e la sfida del tempo buio che viviamo
Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi
La prima cosa da evitare è quella di proporre narrazioni autoconsolatorie. Se è vero che alcune dichiarazioni e i primi atti di questo governo inquietano perché sono segnali di una possibile deriva autoritaria e discriminatoria, è anche vero che la continua crescita di Fratelli d’Italia nei sondaggi deve far riflettere. Per quanto insoddisfacenti possano essere giudicati la firma del contratto per la scuola e l’aumento delle pensioni, per quanto gli aumenti siano del tutto insufficienti a fronte dell’inflazione galoppante, sono comunque eventi che rappresentano l’ostentazione di una sensibilità sociale da parte di questo governo. È perciò ragionevole chiedersi, in via preliminare, se vi sia e quale sia il blocco sociale che lo sostiene. Si tratta di una situazione ancora molto fluida e cangiante, ma in primo avvicinamento sembrerebbe che le forze sociali che hanno dato fiducia non solo e non tanto a questo governo, quanto specificamente a Fratelli d’Italia, siano una parte rilevantissima delle lavoratrici e dei lavoratori del nord e una determinata parte del mondo dell’imprenditoria. Per lavoratrici e lavoratori intendo davvero tutti, mondo del lavoro dipendente a tempo determinato e indeterminato e lavoratori autonomi nelle loro mille sfaccettature. Il mondo dell’imprenditoria sembrerebbe invece più articolato, essendovi delle riserve (fondate) sulla vocazione effettivamente europeista del partito di maggioranza relativa. Assieme, vanno messi a fuoco i segnali autoritari e discriminatori: la politica verso i migranti, il decreto legge cosiddetto anti-rave, la lettera del ministro Valditara agli studenti come rappresentazione di una verità storica “di Stato” e l’ostentata enfasi su alcune parole chiave come nazione o doveri. C’è da inoltre daaggiungere un necessario allarme per la ostentata volontà di riformare la Costituzione in chiave semipresidenziale e di mettere in esecuzione i progetti di autonomia differenziata.
Il governo Meloni
In questo scenario è giusto interrogarsi sulla natura di questo governo evitando banalizzazioni e semplificazioni. Non mi pare corretto sostenere che si tratti di un governo fascista tout-court e tantomeno che sia un governo a-fascista o, a maggior ragione, antifascista. Il partito della Meloni presenta, come ha scritto il professor Alberto Olivetti, “elementi di fascismo in sospensione”. Il passato filofascista della Presidente del Consiglio e dell’attuale Presidente del Senato mi pare un dato incontrovertibile, così come è inquietante che il Presidente La Russa non sia ancora in grado di distinguere chiaramente la differenza fra il ruolo della seconda carica dello Stato e il ruolo di dirigente di partito. Preoccupa per di più il recente e manifesto tentativo da parte sua di “tirare per la giacchetta” il Presidente della Repubblica in merito alle polemiche con il governo francese.
La Presidente del Consiglio e il suo governo, per dirla in breve, sembra perciò rappresentare, sia pur con qualche grado di prudenza, quel sentimento diffuso e confuso oggi in occidente in cui coesistono e si alimentano reciprocamente cesarismo, nazionalismo, razzismo, autoritarismo, pensiero magico. Ed anche, non nascondiamocelo, fascismo e nazismo. Aggiungo che un ulteriore approfondimento andrebbe svolto in merito alla categoria del conservatorismo: siamo davanti a una radicalizzazione che ha poco a che vedere con la tradizionale pratica della grande tradizione inglese dei tories e che negli ultimi vent’anni ha presentato inquietanti varianti, come i neocon e i teocon. Il fatto che Giorgia Meloni sia il presidente del partito dei conservatori e riformisti europei rappresenta efficacemente questa mutazione.
Fra autoritarismo, democrazia liberale e democrazia sociale
C’è una tempesta perfetta che imperversa sull’Europa e sul nostro Paese (crisi istituzionale, economica, sociale, sanitaria, ambientale, bellica). Sottolineo solo il nesso, tanto stretto quanto sostanzialmente celato dai media e dalla politica, fra il violento scontro fra Unione Europea e Federazione russa in merito alla guerra e il formidabile aumento dei prezzi tuttora in corso. La tempesta perfetta è il miglior terreno di coltura delle svolte autoritarie. Basti pensare alle conseguenze della Prima guerra mondiale negli anni Venti con la nascita del fascismo in Italia e l’avvio della diffusione di regimi nazionalisti o fascisti in Europa, e, negli anni Trenta, alle conseguenze indotte dagli effetti della guerra mondiale e dal crollo di Wall Street (nazismo in Germania e straordinaria diffusione di nazifascismi e autoritarismi in Europa). È utile a questo proposito rileggere le parole di Antonio Gramsci su crisi organica e cesarismo. Eppure tutto ciò non basta, perché occorre cogliere le novità della situazione attuale, del mondo post-globalizzato, degli effetti in parte già in atto, in altra parte del tutto imprevedibili, della guerra in corso in Ucraina, delle conseguenze del riscaldamento globale, che non sono più materia, come si diceva fino a qualche tempo fa, attinente al futuro dei nostri figli ma oggetto del loro presente come del presente nostro.
In questo scenario il modello di contrasto fra democrazie e autoritarismi presentato oggi (con eccessiva prosopopea) come decisivo per i destini del mondo, seppure in parte necessario, si presenta lacunoso e perciò insufficiente. Esso infatti in realtà contrappone le democrazie liberali agli autoritarismi, con uno specifico riferimento al dispotismo asiatico, senza indagare sulle cause della crisi della democrazia liberale e perciò senza intervenire sulla loro rimozione, laddove, in sostanza, la vera questione è come trasformare le democrazie liberali in democrazie sociali. Manca il soggetto in grado di operare in direzione di questa trasformazione e cioè un fronte nazionale, europeo e internazionale di forze democratiche di sinistra che operi proponendo nuovi fondamenti dell’azione politica, a cominciare dalla centralità del lavoro, dalla centralità della dignità della persona, dalla effettiva costituzione di un mondo multipolare.
A partire da queste considerazioni si può avviare una riflessione sull’antifascismo oggi. Esso si potrebbe condensare in tre titoli: antifascismo come destrutturazione, antifascismo come costruzione, antifascismo come nuova narrazione.
Antifascismo: destrutturare i fascismi
L’antifascismo come destrutturazione è il contrasto diretto al fascismo sul terreno politico, culturale, civile, sociale, giuridico. Siamo davanti a una rilegittimazione progressiva del fascismo storico simbolicamente avviata dal 1994 (primo governo Berlusconi) e proseguita sempre più rapidamente con progressivi cedimenti delle forze di centrosinistra, dal discorso di insediamento del Presidente della Camera Violante del 1996 all’ambigua legge sul “Giorno del Ricordo” del 2004, alla non contrastata attuazione di questa legge in chiave di vittimario neofascista. Alla rilegittimazione del fascismo faceva da contrappunto la delegittimazione della Resistenza e l’«annegamento» del fascismo e del nazismo storico nella categoria del totalitarismo. È innegabile che su questo racconto del Novecento la destra sovranista o propriamente fascista abbia conquistato molti punti di egemonia. L’antifascismo come destrutturazione dovrebbe smontare questa costruzione ideologica da tutti i punti di vista, con speciale attenzione ai luoghi della formazione, con una specifica offensiva verso le formazioni propriamente fasciste (il fascismo “nudo” di Casa Pound, di Forza Nuova, di Lealtà Azione, e con loro la galassia di micro formazioni della stessa natura), con un impegno giuridico, politico, istituzionale contro la reiterazione dei simboli del fascismo, dalla toponomastica ai saluti romani fino alle più varie ostentazioni di simboli e comportamenti fascisti.
Antifascismo: difendere e attuare la Costituzione
Per antifascismo come costruzione si intende la difesa e l’attuazione della Costituzione. Essa è infatti la forma giuridica storicamente determinata dell’antifascismo perché propone una società e uno Stato simmetricamente contrapposti alla società e allo Stato fascista. La democrazia costituzionale è rappresentativa e partecipata e si incardina sulla centralità del Parlamento: tre colonne oggi profondamente in crisi. La crisi di rappresentanza è manifesta davanti a un astensionismo che ha raggiunto vette impensabili. La crisi di partecipazione deriva dalla profonda sordità dei gruppi dirigenti davanti alle richieste e agli orientamenti dei cittadini (vedi per esempio il referendum sull’acqua o le decisioni in merito alla guerra in Ucraina, nell’assoluta ignoranza della volontà popolare non solo mai invocata, ma in qualche modo espressamente esorcizzata militarizzando il dibattito pubblico). La crisi della centralità del Parlamento è figlia di una pratica di governo che ha fatto dell’eccezione la regola, per esempio sui decreti legge o sulle mozioni di sfiducia, delle leggi elettorali che hanno privato gli elettori della facoltà di decidere chi sono gli eletti, della crisi dei partiti che hanno profondamente cambiato natura rispetto al sistema dei partiti nato dopo la Liberazione.
Da questo punto di vista la difesa e l’attuazione della Costituzione si trasformano in impegno – per dirla in una parola – nel restituire al popolo la sua sovranità. Si prospetta la scadenza del semipresidenzialismo che, dietro lo specchietto per le allodole del suffragio universale per eleggere il Presidente della Repubblica, nasconde la fine della sua figura come super partes, sostituita da una rappresentanza di maggioranza che esclude di conseguenza un’area più o meno vasta di cittadini. Mi pare perciò che la battaglia debba svolgersi su tre terreni: restituire poteri e funzioni al Parlamento, riconsegnare agli elettori il diritto di scegliere i propri rappresentanti in un Parlamento dove essi siano in numero proporzionale rispetto ai voti espressi, rifondare un sistema politico ove i partiti siano presenti sul territorio, abbiamo un continuo interscambio con le proprie aree sociali di riferimento, avanzino idee, proposte e leggi inscritte in specifici orizzonti di cambiamento: la politica del giorno per giorno non è politica.
Ma la questione centrale relativa alla Costituzione riguarda i princìpi fondamentali e il Titolo III: “Rapporti economici”; gli obblighi e le prospettive costituzionali in merito al lavoro e ai diritti sociali sono stati in questi decenni largamente disattesi, se non esplicitamente violati. Questa volontà politica legata agli effetti prima della crisi economica avviatasi nel 2007-2008, poi della crisi economica attuale è, a mio avviso, in ultima analisi, la causa fondamentale del declino del sistema democratico del nostro Paese e delle vittorie delle forze di destra, dove l’esito delle elezioni del 25 settembre è in realtà il risultato di una lunga marcia che ha visto le destre conquistare la grande maggioranza delle Regioni italiane e centinaia e centinaia di Comuni. Da ciò l’urgenza dell’attuazione dei princìpi e dei disposti costituzionali come elemento decisivo del contrasto alla crescita dei consensi verso l’estrema destra. Il cuore del problema è la lotta alla diseguaglianza, in cui un’arma formidabile è rappresentata dal 2° comma dell’art. 3: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”. Da questo punto di vista l’attuazione dell’autonomia differenziata costituirebbe un colpo presumibilmente decisivo contro l’universalità dei diritti dei cittadini e un ulteriore incremento delle diseguaglianze, in particolare (ma non solo) fra sud e nord del Paese. Il limite della democrazia liberale è esattamente nella sottovalutazione del tema dell’eguaglianza, laddove la democrazia sociale può contemperare libertà e uguaglianza come fondamenti della convivenza civile.
Non va sottovalutato, infine, nella difesa dell’attuazione della Costituzione, il tema della pace e della guerra. Oggi il nostro Paese è in prima linea in una situazione di quasi- guerra, dopo incredibili forzature nella lettura dell’art. 11 della Costituzione e in un clima di intolleranza, se non di linciaggio morale, verso chiunque esprima un punto di vista diverso da quello del governo e dei grandi media. Il paradosso è che i più intolleranti si sono dimostrati tanti alfieri nel pensiero liberale che in questa misura hanno negato i fondamenti stessi del liberalismo. La grande manifestazione per la pace del 5 novembre, a Roma, sia per le sue dimensioni sia per l’amplissimo spettro di adesioni, può rappresentare un punto di svolta, a condizione di una sua continuità sul territorio.
La lotta per la difesa e l’attuazione della Costituzione è davvero centrale oggi, quando il quadro politico costringe a mettere l’accento sul primo dei due sostantivi: la difesa, essendo latenti e in alcuni casi patenti alcune volontà di riscrivere la Carta o di stravolgerne il significato. Né stupisce il filoamericanismo dell’estrema destra italiana, quella – come si dice – post fascista, perché tale opzione data da decenni nel filone principale di quella cultura politica.
Antifascismo: una nuova narrazione della Resistenza
Penso all’antifascismo, infine, come nuova narrazione della Resistenza, cioè come trasferimento della memoria della conoscenza storica sul terreno dell’impegno civile, sociale, culturale e politico. Se chiedo a uno studente cosa conosce della storia della Resistenza può accadere che ti risponda che non sa; ma potrebbe anche accadere che ti risponda che l’ha studiata e che ha vissuto tale studio con la stessa partecipazione con cui ha studiato le vicende dell’impero romano o le imprese di Napoleone Bonaparte. La nuova narrazione consiste nel proporre la conoscenza della Resistenza non come ultima cronologia della storia, ma come presupposto della convivenza civile qui ed ora. E parlare della Resistenza non come di un passato sia pure interessante, ma come di un fondamento della vita vivente vuol dire attualizzare l’intero rosario dei suoi valori: la libertà contro l’oppressione di oggi; la liberazione come un processo ininterrotto, come sottrazione progressiva di dipendenze; la democrazia contro ogni tendenza autoritaria; l’uguaglianza contro qualsiasi visione gerarchica della società, ove ci sono i ceti prevalenti e le classi subalterne senza alcun ascensore sociale; la persona contro l’individuo, cioè l’umano dotato di dignità che entra in relazione necessaria con altri umani, contro la visione che considera l’umano un Robinson Crusoe, un isolato, o peggio ancora un numero governato da un algoritmo in un mondo di consumatori; la solidarietà contro l’egoismo sociale, vedi il Mezzogiorno, i migranti, gli “scarti”, per usare le parole di Francesco; la pace contro la guerra, tematica spaventosamente attuale. Una nuova narrazione della Resistenza vuol dire mettere a valore la memoria del passato per interpretare il presente ed operare nel presente.
Fra associazioni e partiti
Su quali gambe si può muovere un’efficace azione antifascista oggi? Non si può nascondere che il fascismo come religione civile, cioè come tessuto connettivo ideale e morale della stragrande maggioranza degli italiani, si sia indebolito e non esprima più pienamente il suo traino egemonico dei primi decenni della Liberazione. Tale ruolo era garantito dagli eredi delle forze resistenziali che oggi non ci sono più. Esso era il collante condiviso, pur fra contrasti anche aspri, di una unità trasversale di pensiero politico e di ideologie. L’obiettivo, di conseguenza, è quello di ricostruire, nelle nuove condizioni storiche, l’unità degli antifascisti a tutti i livelli, impresa tanto necessaria quanto sommamente difficile e complessa.
I partiti hanno smarrito la doppia funzione svolta nei primi trent’anni dalla Liberazione: funzione di formazione civile e di cinghia di trasmissione tra Stato e popolo, istituzioni e cittadini. Il filo che connetteva tali funzioni era la condivisione dell’antifascismo. Non ci sono più i partiti del tempo della Costituzione. Il più antico partito presente oggi in Parlamento nasce nel 1991: la Lega Nord. Rimane una vocazione antifascista nei partiti di centro-sinistra, ma è subordinata a tensioni e lacerazioni sia fra i partiti che, in alcuni casi, al loro interno, ed anche a linee politiche diverse, spesso profondamente contrapposte. I partiti devono rimanere un interlocutore importante, sia chiaro, ma non possono essere l’unico e forse, in questa fase, neppure il principale.
La novità civile è costituita da una rete di associazioni, laiche e religiose, che, sia pur in modo alle volte contraddittorio, conservano l’antifascismo come collante e come costante riferimento ideale e sono accomunate da preoccupazioni sul futuro democratico del Paese. Dall’unità e dall’attività dell’associazionismo come forma e laboratorio della democrazia militante oggi dipende in parte non irrilevante il destino della battaglia antifascista. A ben vedere l’antifascismo è quasi sempre il minimo comun denominatore di grandi battaglie sociali e civili contemporanee: la lotta al riscaldamento globale, la politica umanitaria nei confronti del fenomeno migratorio, l’emancipazione e la liberazione di genere, oltre che, naturalmente, le lotte contro le diseguaglianze, per il lavoro, per un nuovo welfare.
Per un umanesimo integrale e realistico
Un moderno antifascismo accetta la sfida della modernità; e la modernità non è una Belle époque, perché si muove fra precariato dilagante, mancanza di luoghi di aggregazione sociale, socialità e solitudine dei social network, inflazione che ti mangia il reddito, crescenti imbarbarimenti nella vita quotidiana, guerra alle porte. In questa misura è la diga contro il patchwork della rivoluzione conservatrice in corso. La prova più alta a cui è chiamato è data dalla presenza del governo postfascista, il governo più a destra nella storia della Repubblica. Viviamo un tempo buio e la storia che ci aspetta è ancora tutta da scrivere. Per vincere, l’antifascismo si deve rinnovare, mantenendo salde le radici con la cura della memoria partigiana e dei suoi luoghi. Un antifascismo rinnovato ha al suo interno la proposta di una società di umanesimo integrale e realistico, i cui codici sono sostanzialmente scritti nella Costituzione. E può vincere, come le utopie che si realizzano, perché è sempre vero che ciò che non è avvenuto può avvenire. Dipende da tutti. Anche da noi.