L’autonomia come aziendalizzazione
di Alina Rosini*
Il tema dell’autonomia scolastica è tra i più dibattuti e controversi dalla fine del secolo scorso; molte sono le posizioni critiche che si contrappongono ai suoi sostenitori e nell’ultimo periodo il tema è diventato ancor più presente essendo in discussione quello, più ampio e generale, dell’autonomia differenziata che coinvolgerebbe, ancora una volta, la scuola. Ripercorriamo le norme che oggi ne determinano la vita e il funzionamento visto che l’introduzione dell’autonomia ha portato grandi cambiamenti.
La legge-quadro dell’autonomia scolastica
Il Ministro per la Funzione Pubblica e per gli affari regionali del primo Governo Prodi (1996-1998), Franco Bassanini, è stato il promotore di quella che doveva essere la più importante riforma della Pubblica Amministrazione e che aveva come obiettivo di renderla più efficace ed efficiente, più snella e di qualità migliore rispetto al passato per rispondere in modo più adeguato alle esigenze dei cittadini.
Per la scuola – alla quale è dedicata una parte della L. 59/1997, la prima delle quattro che compongono la riforma – la soluzione era darle “autonomia”. Lo Stato, rimanendo garante del diritto allo studio e delle regole generali di gestione e programmazione, avrebbe ceduto alcune funzioni agli istituti scolastici. Nel testo la scuola è definita “un servizio di istruzione” e non più un’istituzione dello Stato che porterà le scuole pubbliche a ricercare finanziamenti privati per trovare risorse economiche aggiuntive.
Il dimensionamento e l’accorpamento “nell’ottica di garantire agli utenti una più agevole fruizione del servizio di istruzione” diventano i pilastri dell’autonomia e da allora a oggi tornano ciclicamente in auge con la giustificazione di rendere le scuole più efficienti, ma con l’obiettivo reale del risparmio. Nell’ultimo periodo si è passati al principio della “razionalizzazione” (L. 111 del 15 luglio 2011) cosicché il numero, più volte aumentato, degli studenti appartenenti allo stesso istituto della Riforma Bassanini diventava la conditio sine qua non per ottenere l’autonomia.
In questo nuovo quadro normativo, le scuole devono ampliare l’offerta formativa organizzandosi al loro interno o creando rete con altri istituti scolastici, inserendo attività per gli adulti e programmi utili a contrastare la dispersione e l’abbandono scolastico. Inoltre, si prevede l’apertura delle scuole anche in orario extrascolastico per promuovere maggiori rapporti con il mondo del lavoro. Bassanini ha trasformato la scuola da istituzione ad azienda utilizzando termini e approvando norme che l’hanno completamente snaturata. È con questa riforma che si inizia a parlare di scuola come “servizio di istruzione” e quindi cambiando il significato di “scuola pubblica”, dove “pubblica” da quel momento in poi vorrà dire “aperta a tutti” e non “di tutti”: le conseguenze sono intuibili.
Un cambiamento radicale
Quando i presidi sono diventati dirigenti scolastici si è introdotta una terminologia (e una pratica) che ha portato le scuole a trasformarsi in azienda con un proprio bilancio e la necessità di far tornare i conti aprendo le porte ai finanziamenti dei privati i quali, però, la condizionano o provano a condizionarla in modi diversi. Il legame fortissimo tra dimensionamento e acquisizione e o mantenimento dell’autonomia ha portato le scuole alla ricerca continua di “attrarre” studenti per evitare di essere accorpate con altri istituti perdendo, spesso, la loro specificità. Se la scuola è legata a meccanismi di mercato e gli studenti diventano “utenti” o, meglio, “clienti”, le conseguenze vengono pagate dalla didattica e dai docenti che vedono limitata la loro libertà di insegnamento e sono sottoposti a valutazione. Se una scuola è selettiva, i suoi clienti scappano e se un docente mette un’insufficienza, quasi sempre arrivano i genitori che, minacciando il cambio di istituto, ottengono le valutazioni desiderate. Non esiste un ragionamento collettivo di mutua assistenza tra le scuole, bensì la corsa a garantirsi il numero di iscritti necessari ad avere riconoscimenti che nulla hanno a che fare con l’istruzione. Questo meccanismo ha portato al proliferare di progetti con l’unica finalità di attrarre iscritti, perdendo troppo spesso di vista quello che dovrebbe essere l’obiettivo di tutte le scuole: preparare cittadini attivi e consapevoli, sviluppando il loro spirito critico e dando loro gli strumenti necessari per affrontare l’istruzione del grado superiore e scegliere cosa fare della loro vita, non solo dal punto di vista professionale.
Il legame tra scuola e lavoro è stato interpretato come se la scuola dovesse mettersi al servizio del mondo del lavoro, limitando e sminuendo ciò che è scritto nella Costituzione: una scuola aperta a tutti che consenta a tutti di partecipare a un percorso di crescita culturale, nella maggior parte dei casi molto elevato.
Un unico obiettivo: contenere la spesa
La riforma del Ministro Letizia Moratti (L. 53/2003) aveva al centro le famose “3 I” (Inglese, Impresa e Informatica), rivedeva i cicli scolastici e introduceva l’alternanza scuola-lavoro come strumento per far sperimentare agli studenti il mondo che li avrebbe accolti alla fine della loro formazione. La riforma del Ministro Maria Stella Gelmini (2008-2011) aveva invece come chiaro obiettivo quello del contenimento della spesa per l’istruzione, raggiungibile riducendo drasticamente il personale scolastico (per esempio, con l’introduzione del maestro prevalente alla scuola primaria, con la modifica del monte ore delle diverse discipline, soprattutto nell’istruzione secondaria di secondo grado e con l’innalzamento del numero di studenti per classe).
La “Buona scuola”
Si arriva così alla riforma del Ministro Stefania Giannini: la L. 107/2015, che l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi presentò e sostenne fortemente ritenendola la riforma che avrebbe realizzato la “Buona scuola”. L’obiettivo principale dichiarato era la piena attuazione dell’autonomia scolastica introdotta dalla riforma Bassanini. È bene ricordare che il testo originario venne fortemente modificato in seguito alle proteste del mondo della scuola. In particolar modo, vennero contestate le misure che avrebbero dato ai dirigenti scolastici ulteriori poteri, fino a prevedere per loro la possibilità della chiamata diretta per l’assunzione del personale. L’alternanza scuola-lavoro, ora PCTO (percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento), viene resa obbligatoria nell’ultimo triennio delle superiori sostenendo la necessità di creare una stretta relazione tra la scuola e il mondo del lavoro: questa doveva essere la finalità principale dell’istruzione scolastica, perché solo in questo modo si sarebbe potuto arginare la disoccupazione in aumento.
In realtà, i dati ci raccontano di un paese che è sempre meno colto e sempre più frammentato e la “Buona scuola”, quella delle competenze, delle abilità e dell’orientamento, non ha garantito una maggiore occupazione. Oggi è evidente che si vuole continuare sulla stessa strada investendo molte risorse economiche del PNRR in orientamento scolastico.
La scuola deve “indirizzare”
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) contiene, al suo interno, le linee guida per l’orientamento (Decreto Ministeriale 328 del 22 dicembre 2022) che prevedono 30 ore (extra?) curriculari per ogni anno scolastico, a partire dalla prima media, da dedicare ad apprendimenti personalizzati (competenze digitali, conoscenze ed esperienze acquisite) da inserire nel proprio e-portfolio, un curriculum digitalizzato che accompagnerà ragazzi e famiglie nella scelta del futuro percorso di studi al fine di allineare domanda e offerta di lavoro. In tale percorso lo studente verrebbe supportato dal docente tutor e dal docente orientatore, una sorta di “docenti consiglieri”, che per una manciata di denari e un punteggio aggiuntivo valido per la mobilità, frequenteranno un corso di formazione organizzato da INDIRE e ricopriranno quei ruoli.
Fino a qualche anno fa tutti i libri di testo di ogni ordine e grado e i corsi di formazione per docenti erano incentrati sullo sviluppo del “pensiero critico” sostituito ora da espressioni quali “conoscenze tecniche”, “saper fare” e “competenze trasversali”… Velocemente la scuola si è trasformata da polo educativo, chiamato a formare cittadini, a catena di montaggio produttrice di manodopera. Dalle circolari e dai decreti ministeriali si evince che ciò che conta è l’allineamento domanda-offerta di lavoro e in tale ottica a fungere da job placement manager sarà proprio il docente orientatore che, nell’espletamento di questa sua funzione aggiuntiva (non contrattualizzata), avrà anche il compito di raccogliere le esigenze lavorative presenti nel territorio. In sostanza tale figura avrà il compito, assieme al compare tutor, di modellare e rendere disponibili alle aziende private locali le intelligenze presenti nella scuola pubblica. Resta ancora un mistero come i docenti summenzionati si rapporteranno con gli studenti che gli saranno affidati e con i vari organi collegiali, in particolar modo con i consigli di classe; la percezione è quella che il consiglio di classe non sarà più sovrano, ma si troverà a fare i conti con agenti esterni che ne influenzeranno l’operato andando così a ledere i principi costituzionali della libertà di insegnamento.
Conclusioni
Tutti i cambiamenti riportati sopra delineano una vera e propria aziendalizzazione e verticalizzazione del sistema scuola al cui vertice siede il dirigente scolastico (con una posizione contrattuale ed economica assai più elevata dei docenti) che sceglie a suo piacimento il proprio staff, un tempo votato dal collegio dei docenti. D’altro canto, queste trasformazioni sono avvenute col beneplacito degli insegnanti che dimostrano di non avere consapevolezza della situazione: sporadici e blandi sono stati i tentavi di autodeterminazione degli ultimi anni; i collegi dei docenti sono ridotti ormai ad “approvifici” e sono caratterizzati da un rapporto di sudditanza nei confronti dei dirigenti. Una mano sicuramente l’hanno data i bassi stipendi, che inducono molti insegnanti a trovare altre fonti di reddito, ma c’è anche paura di dire la propria opinione davanti al “padrone”.
* Alina Rosini vive a Torino, dove insegna inglese nella scuola secondaria di primo grado; attivista sindacale nella CUB SUR e si occupa di politiche scolastiche.