L’autonomia differenziata: cancellazione dei diritti sociali e fine del costituzionalismo democratico
Franco Russo*
La tecnocrazia contro Calderoli
Nelle ultime settimane, nel muro eretto dal ministro Calderoli a sostegno dell’autonomia differenziata (AD), si sono aperte molte crepe: fuor di metafora, esponenti di rilievo dell’establishment politico, economico, istituzionale hanno espresso critiche di fondo al suo disegno di legge evidenziandone lacune, contraddizioni, illegittimità costituzionali. A documentare queste critiche non basterebbe l’intero fascicolo della rivista, perché bisognerebbe riportare quelle avanzate dalla Commissione europea nello Staff Working Document di supporto al Country Report – COM (2023) 612 final –, dal Servizio Bilancio del Senato nella Nota di lettura n. 52 del maggio 2023, o presenti nelle Memorie di Confindustria (30 maggio), Banca d’Italia (19 giugno), ANCI (25 maggio), UPI (23 maggio), per ricordarne alcune, consultabili tutte nel sito della I Commissione del Senato (https://www.senato.it/3572). Si noti che non ho citato nessuna delle Memorie di chi – costituzionalisti, o rappresentanti di sindacati, associazioni, comitati ecc. – si oppone all’AD, ma solo di chi l’accetta come prospettiva mettendo però in luce vizi di forma e di contenuto del disegno di legge Calderoli (AS 615). Scelgo di riportare, per la loro significatività, alcuni passaggi di un ampio documento dell’Ufficio parlamentare di bilancio – Risposta alla richiesta di approfondimenti, inviata alla I Commissione del Senato il 20 giugno 2023 – partendo dalla questione dei livelli essenziali di prestazione (LEP). Su questi si afferma: “il Ddl ammette la possibilità che dalla loro determinazione possano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica; in questo caso il trasferimento delle funzioni dovrà essere preceduto dallo stanziamento delle necessarie risorse” (pag. 6), ciò che invece non è previsto; va “considerato che il fabbisogno standard, anche in assenza di provvedimenti normativi che influiscano sui LEP, non rappresenta un ammontare immutabile nel tempo, dipendendo da fattori relativi al numero di beneficiari e/o di prestazioni da garantire (ad esempio, l’evoluzione demografica, la variazione delle caratteristiche economiche delle famiglie in relazione a eventuali criteri selettivi basati sui mezzi, le scelte dei cittadini, ecc.), nonché dal costo dell’erogazione, anch’esso variabile nel tempo. Anche le risorse necessarie a garantire le funzioni non collegate ai LEP potrebbero variare nel tempo, ad esempio per mutamenti nella domanda di servizi” (pp.13-14); “l’introduzione di forme di autonomia differenziata influirebbe sulla programmazione di bilancio sotto diversi aspetti […] si potrebbe generare un deciso aumento della complessità delle relazioni tra livelli di governo che inciderebbe sul loro coordinamento in maniera tanto più rilevante quanto maggiore sarà l’ammontare delle risorse coinvolte nel processo. Inoltre, qualora le RAD [le Regioni ad autonomia differenziata] assumessero il controllo su quote significative della spesa pubblica e del gettito dei tributi, potrebbe in generale risultare indebolita la capacità del governo centrale di rispondere in maniera tempestiva a necessità urgenti che si manifestassero, come accaduto negli ultimi anni, a livello sia nazionale sia sovranazionale” (pp. 23-24); l’AD e “in particolare, la frammentazione delle normative e la diversificazione delle politiche potrebbe avere effetti distorsivi sulla localizzazione e sulla scelta degli investimenti delle imprese – aggravando gli esistenti divari territoriali o potenzialmente creandone di nuovi – e comporterebbe difficoltà e ulteriori aumenti dei costi di adempimento per le imprese che operano su scala multi-regionale. Potrebbero risultare alterati i profili di concorrenzialità e competitività delle imprese” (pag. 25). L’UPB avanza critiche per evitare cadute della competitività delle imprese italiane e garantire gli equilibri dei bilanci pubblici nazionali e regionali, per questo denuncia l’approssimatività e le lacune della legge Calderoli, rilevate anche da Giuliano Amato, Franco Bassanini, Franco Gallo e Alessandro Pajno nella lettera di dimissioni dal Comitato per la definizione dei LEP (CLEP), inviata al suo presidente Sabino Cassese il 26 giugno. Infatti, essi ritengono necessario, “prima della attribuzione di nuove specifici compiti e funzioni ad alcune Regioni con le corrispondenti risorse finanziarie, la determinazione di tutti i LEP attinenti all’esercizio di diritti civili e sociali, e la definizione del loro finanziamento secondo i principi e le procedure dell’art. 119 della Costituzione”. E a più riprese sottolineano che la determinazione dei LEP sia di competenza del Parlamento, e la Cabina di regia predisposta dai commi 791-801 dell’articolo 1 della legge di bilancio n. 197/2022, a cui rinvia l’articolo 3 del ddl Calderoli, debba limitarsi a un lavoro istruttorio per le decisioni legislative. Nella sua replica alla discussione generale in I Commissione al Senato il 5 luglio, il ministro Calderoli ha liquidato la faccenda affermando che i quattro giuristi che si sono dimessi dal CLEP “avevano inizialmente condiviso il percorso e apprezzato la formazione di un sottogruppo”. Tuttavia nulla ha detto nel merito alle critiche avanzate né dai quattro giuristi né dagli altri esponenti dell’establishment istituzionale o economico.
Il nuovo triangolo industriale e il Mezzogiorno
Quelle critiche sollevano una questione politica: come mai il governo Meloni intende portare avanti il disegno di legge Calderoli nonostante i giudizi taglienti emessi dalla tecnocrazia pubblica, dal padronato, da personaggi che hanno ricoperto ruoli di primo piano, o in politica o nelle sfere giurisdizionali? Certo, c’è di mezzo la persona del ministro Calderoli che vuole essere ricordato nei libri di storia per aver introdotto l’AD, c’è lo scambio politico tra questa, vessillo della Lega e dei suoi “governatori” di Regione, e l’elezione diretta del capo del governo per istituire il “premierato assoluto” (come lo definì L. Elia), tuttavia accanto alle aspirazioni personali e al “patto scellerato” ci sono ragioni più di fondo che appartengono alle dinamiche sociali. Per rendersene conto basta leggere “Il Sole 24 ore” del 29 giugno (pag. 19), dove sono riportati i più recenti dati relativi alle esportazioni delle Regioni che fanno da apripista dell’AD: primo partner commerciale dell’Emilia-Romagna è la Germania dove si indirizza il 13 % del suo export, quote analoghe si riscontrano per la Lombardia (13,6%) e per il Veneto (13,7%). Le imprese di queste tre Regioni sono integrate nelle catene produttive sovranazionali che fanno per lo più capo alla Germania e per questo, nonostante la contrarietà di taluni settori della Confindustria meridionale, esse premono da decenni per una sempre più profonda integrazione dei loro territori con il Centro-Europa. La spinta verso l’integrazione del Nord Italia, in primo luogo della “grande Milano”, con le regioni del Centro Europa emerge con assoluta nitidezza nelle parole di Alessandro Spada, presidente di Assolombarda: “Noi siamo, per natura geografica, ‘nel cuore dell’Europa’. Noi siamo, per capacità industriale, il cuore dell’Europa … La nostra industria manifatturiera possiede migliaia di campioni piccoli, medi, medio-grandi e grandi che operano con successo a livello internazionale in segmenti altamente specializzati della manifattura. Siamo però pienamente consci che anche questa ‘nuova’ Italia così performante, trainata da Milano, dai nostri territori, dalla nostra dinamica Regione con le nostre industrie e i nostri servizi avanzati, si trova oggi di fronte a un serio annuvolamento dello scenario europeo e mondiale”. Per eliminare le nubi dall’orizzonte della manifattura lombarda si propone un’integrazione ancor più stretta con le regioni forti dell’UE: “Infine, per permettere ai nostri territori di crescere ulteriormente, non possiamo non ragionare in ottica ‘metropolitana’. Senza tergiversare ancora, serve portare a compimento una riforma che assicuri alla Milano allargata di essere, a tutto tondo, il gate economico d’Europa e del mondo. Per farlo servono fondi, l’elezione diretta del Sindaco e tempi certi. Nella stessa direzione, in una dimensione ancora più grande, il capitolo dell’autonomia regionale differenziata. Il nostro passo, nettamente più spedito, permetterà al Paese intero una corsa virtuosa e non il contrario” (Relazione all’Assemblea Assolombarda, 3 luglio). Naturalmente Attilio Fontana, il governatore leghista della Lombardia, ha applaudito alla presa di posizione sull’AD di Alessandro Spada. Analoghi orientamenti sono stati a più riprese manifestati dalla Confindustria del Veneto, per non parlare degli imprenditori della Via Emilia, la terra della subfornitura dell’industria tedesca e internazionale.
Il nuovo triangolo industriale, Lombardia-Veneto-Emilia-Romagna, guida il treno dell’AD, perché ha la necessità di non avere a livello nazionale “pesi morti” nella gara nei mercati mondiali, o perché le loro imprese fanno parte delle catene di valore sovranazionali o perché, essendo “multinazionali tascabili”, vogliono rimanere leader mondiali.
All’altro polo, c’è il Meridione. Nell’Ottava Relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale, la Commissione UE documenta che il Meridione d’Italia è completamente fuori dai processi di integrazione economica e sociale europei, rimanendo la zona più arretrata dell’UE, e che il divario tra il Nord e il Sud dell’Italia si è ampliato negli ultimi anni. Analoghi rilievi si ritrovano nelle pubblicazioni dell’ISTAT, si veda per esempio il report I divari territoriali nel PNRR: dieci obiettivi per il Mezzogiorno, del 25 gennaio 2023.
Non da oggi, di sicuro dai tempi del governo Draghi, da quando con la guerra contro l’Ucraina da parte della Russia di Putin si è posto il problema della sicurezza degli approvvigionamenti energetici, va avanti il disegno di dar vita a nuove servitù nel Mezzogiorno, per farlo diventare un hub dell’energia necessaria per le imprese del Nord Italia e dell’UE. Inoltre, la ricollocazione ‘amichevole’ – il friendly reshoring – delle produzioni dell’UE e, al tempo stesso, la necessità di mantenere i rapporti commerciali con i paesi asiatici richiedono lo sviluppo di una forte rete logistica individuata nel Mezzogiorno, che vede già presenti alcuni dei suoi nodi. Il Mezzogiorno d’Italia è chiamato di nuovo a svolgere servizi di base per lo sviluppo capitalistico del Nord Italia e dell’UE. Si è tanto parlato negli anni Novanta dello scorso secolo dell’avvenuto superamento della “questione meridionale”, tanto che, dal 1992, vennero progressivamente smantellati la legislazione e gli strumenti dell’intervento speciale, mentre la questione meridionale non è mai stata risolta e oggi si ripropone in termini vieppiù drammatici. Essa, con la revisione del Titolo V del 2001, è stata cancellata dalla Carta costituzionale, prevedendo il novellato articolo 119 che ‘lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali a favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni’ – in questo modo si è abrogato per legge, non certo nella realtà, il dualismo socio-economico Nord-Sud.
I Livelli essenziali di prestazione
Il Ddl Calderoli attua le disposizioni dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, che prevedono la possibilità di attribuire alle Regioni a statuto ordinario “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” concernenti ben 23 materie. Se si considera che le venti materie di legislazione concorrente, dunque devolvibili, comprendono, la sanità, la tutela e la sicurezza del lavoro, l’alimentazione, il governo del territorio, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, la protezione civile, le grandi reti di trasporto, l’energia, i porti e gli aeroporti, ecc. ecc., e che le tre materie devolvibili di competenza esclusiva dello Stato riguardano l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali dell’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, è evidente che la devoluzione priverà il Parlamento di competenze di primaria importanza. Tuttavia, almeno riguardo ai LEP, la disposizione costituzionale è chiara: essi devono essere stabiliti per legge, e infatti lo Stato ne ha “legislazione esclusiva” (art. 117 Cost. secondo comma). Dunque è il Parlamento la sede per la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (come recita testualmente la lettera m, secondo comma art. 117 Cost.). Al contrario, il Ddl Calderoli e, già prima, la legge di bilancio sottraggono questa competenza legislativa al Parlamento, attribuendola al Presidente del Consiglio, che si avvale di una Cabina di regia coadiuvata da organismi tecnici come il SOSE e il CINSEDO (legge n. 197/2022, art. 1 commi 791-801). Tenendo ben a mente che i LEP dovrebbero definire i livelli di prestazione per la fruizione dei diritti fondamentali civili e sociali, risalta l’enormità del vulnus costituzionale, perché non sarà il Parlamento bensì il Presidente del Consiglio a decidere dove, come e a quale livello erogare i servizi necessari a garantire che ogni persona possa esercitare i suoi diritti. Potrebbe mai esserci norma più antidemocratica di questa? Ed è stata votata dal Parlamento, che così ha compiuto un atto di suicidio politico.
I LEP comporteranno la cancellazione delle disposizioni dell’articolo 3 della Costituzione, dove si prescrive che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli “ostacoli di ordine economico e sociale che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Perfino “Il Sole 24 Ore” ha pubblicato un articolo di Giovanna De Minico, professoressa di diritto costituzionale all’Università Federico II di Napoli, dove si afferma che spetta “al Parlamento, per la sua derivazione popolare, comporre il bagaglio dei diritti sociali, avvalendosi della legge” (1 marzo 2023, p. 14).
Grave è la previsione che, se dalla determinazione dei LEP dovessero scaturire “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, si potrà procedere al trasferimento delle funzioni solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie coerenti con gli obiettivi programmati di finanza pubblica e con gli equilibri di bilancio” (Ddl AS 615, art. 4, comma 1). Questo sta a significare che, per finanziare i LEP, non ci saranno in bilancio nuove risorse, ma si ridistribuiranno quelle che ci sono tagliando in altri comparti della spesa pubblica.
Questo dei LEP è un tema di mobilitazione fondamentale che unisce Nord e del Sud del paese, perché essi provocheranno un abbassamento dei livelli delle prestazioni di tutti/e ovunque si risieda, e incentiveranno inoltre la diffusione di forme di assicurazione privata e di welfare aziendale con il risultato di rendere ancora più accentuate le differenziazioni sociali. I LEP, per definizione, individuano livelli essenziali, per altro minimi, uguali per tutti e tutte, mentre la Costituzione all’articolo 3 prescrive che le prestazioni devono essere articolate a seconda della reale condizione di ogni persona perché ne sia reso possibile il suo sviluppo. Ha scritto Fulvio Cortese che l’AD lede l’art. 3 Cost. perché questo, prendendo atto delle diversità dei e delle cittadini/e – essendo cioè ‘uguali come persone, diversi come individui’ (Ferrajoli) –, prevede una differenziazione delle azioni positive e non la loro parificazione, per di più al ribasso (v. La differenziazione nella Repubblica delle autonomie, a cura di Daniele Coduti, Torino 2022, pp.70-71).
L’emarginazione del Parlamento
Il Parlamento viene spogliato della sua competenza legislativa anche nelle procedure per stabilire le Intese relative alla devoluzione dei poteri legislativi tra lo Stato e le Regioni, dove i protagonisti saranno il Presidente del Consiglio e il Presidente della Regione – i vertici degli esecutivi decideranno quali competenze legislative il Parlamento dovrà devolvere alle Regioni. La devoluzione di competenze legislative in nuove materie – sia di quelle a legislazione concorrente sia delle tre di competenza legislativa esclusiva del Parlamento – porterà a un rafforzamento del ruolo dei Presidenti di Regione rendendoli sempre più “governatori”, e andrà in parallelo con quello del Presidente del Consiglio, i cui poteri si vogliono ulteriormente ampliare tramite la sua elezione diretta (come si prefigge la destra al governo).
L’elezione diretta del Capo del Governo e l’AD, lungi dal contraddirsi, vanno di pari passo con l’effetto di verticalizzare i poteri, a livello regionale e a livello nazionale. Non a caso si sostiene che solo l’elezione diretta del Capo del Governo può evitare il pericolo di una frammentazione istituzionale del paese, perché i cittadini tramite le elezioni-plebiscito potranno riconoscersi in una figura unitaria perché da essi prescelta.Si istituirà così un sistema multilivello di “democrazia plebiscitaria”. La democrazia rappresentativa sarà sotterrata: a livello regionale i Consigli sono nelle mani del “governatore”, già da tempo eletto direttamente, per il principio del simul stabunt et simul cadent; a livello nazionale il Parlamento sarà ridotto sempre più a un’assemblea di vuota discussione, infatti le decisioni delle politiche pubbliche, soprattutto quelle di bilancio, sono ormai appannaggio della tecnocrazia dell’UE, e quelle residue saranno prese dal Capo del Governo. I regimi politici “occidentali”, compreso quello italiano, stanno andando verso l’instaurazione di sistemi in cui il potere, sempre più verticalizzato e personalizzato, si legittima con i plebisciti e si avvale per governare della tecnoburocrazia. La mobilitazione contro l’AD fa parte di quella contro lo svuotamento della democrazia costituzionale, fondata sulla rappresentanza politica e sui diritti fondamentali delle persone.
* Franco Russo ha partecipato al movimento ita- liano del 1968. Nel 1976 ha partecipato alla co- struzione di Democrazia Proletaria. Ha contribuito a costruire percorsi rossoverdi. Come membro di Rifondazione Comunista, ha partecipato al ForumSociale Europeo e alla Carta dei principi dell’altra Europa. È stato deputato al Parlamento italiano. Ora è attivo in associazioni che si occupano di democrazia costituzionale, diritto del lavoro e Unione Europea.