Le conseguenze economiche della guerra in Ucraina

Guglielmo Forges Davanzati

Introduzione

La guerra in Ucraina verosimilmente determinerà una radicale riconfigurazione dei rapporti di forza su scala globale, dagli esiti del tutto imprevedibili. Così come imprevedibili sono le conseguenze economiche del conflitto per l’Italia e per il mondo. In questa nota, scritta nel marzo del 2022, mi soffermo sulle ricadute economiche della guerra in Ucraina con esclusivo riferimento all’Italia, agli effetti redistributivi del conflitto armato e alle politiche economiche più efficaci per ridurne gli impatti.

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La guerra e la distribuzione del reddito in Italia

 In Italia la produzione industriale perde terreno già da prima della guerra in Ucraina. A febbraio, secondo le stime del Centro studi di Confindustria, la contrazione è stata dello 0,3%, che fa seguito al calo dello 0,8% di gennaio. E’ un dato che non tiene ancora conto della guerra in Ucraina e dell’impatto, in particolare, su due fronti. 

In primo luogo, l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici (non solo gas e petrolio, ma anche rame, alluminio, acciaio e prodotti bituminosi), che potrebbero restare eccezionalmente alti per molto più tempo del previsto; in secondo luogo, l’effetto di calo della domanda per i settori più esposti, tipicamente moda e turismo. Le conseguenze sul tasso di inflazione, citate anche dal recente Rapporto del Fondo Monetario

internazionale, si fanno già sentire per le famiglie più povere per le quali il reddito è fisso: un allargamento del conflitto avrebbe conseguenze devastanti. La variazione acquisita (ovvero quella che si avrebbe nel caso di crescita nulla a marzo) è pari a  – 1%. Un’evidente inversione rispetto a quanto fatto registrare nel terzo trimestre 2021 (+ 1%). Il Centro studi di Confindustria pone l’accento soprattutto sull’aumento dell’incertezza connesso alla guerra in corso e le aspettative pessimistiche degli imprenditori potrebbero portare a un ulteriore calo degli investimenti. 

Alimentari, moda, mobili, legno, metalli sono i prodotti più esportati a Mosca, seguono la meccanica, la meccatronica e l’agroalimentare. La crisi ucraina frena anche le importazioni: si stima, a riguardo, che siano coinvolti circa 12 miliardi di forniture, pari al 3% delle importazioni nazionali. Sono a rischio il gas naturale (la cui dipendenza italiana è pari al 58%) petrolio e altri metalli, fra i quali ferro, metalli preziosi, antracite, rame) e cereali. 

E’ anche importante sottolineare come le ricadute economico-finanziarie non siano neutrali fra le due sponde dell’Atlantico: dall’inizio dell’attacco russo a inizi marzo, l’indice Standard & Poor 500 a Wall Street sale del 2.4% e il Nasdaq del 2.1%, mentre in Europa le Borse hanno perso il 20% e Milano il 13%.

Sulla base di queste evidenze si può stabilire che questa guerra non ha ricadute neutrali né sul fronte interno (penalizza maggiormente i percettori di redditi bassi e fissi) né rispetto alle aree territoriali: nel medio periodo penalizza maggiormente il Mezzogiorno in quanto area fortemente dipendente dal settore più esposto, ovvero il turismo, ma già nel breve periodo penalizza anche il Nord in quanto maggiormente esposto nelle catene globali del valore. Come ricordato da Coldiretti Puglia, è a rischio l’arrivo di oltre centomila turisti in Puglia, con ricadute soprattutto nel settore dell’agroalimentare. E’ la speculazione finanziaria sui titoli dei prodotti energetici e alimentari, su scala globale, a trarre i maggiori benefici in uno scenario di economia di guerra. Il freno alla produzione è generato da questa sequenza di effetti: l’aumento del costo dei beni importati accresce i costi di produzione e, al tempo stesso, riduce i salari reali; con domanda in riduzione, non è possibile scaricare sui prezzi gli aumentati costi, che si traducono in minori margini di profitto, fino al fallimento.

Tuttavia, se lo scenario è quello di una guerra breve e “locale”, occorre considerare che il Pil dell’Ucraina pesa per il solo 0.2 del Pil globale e che i timori di interruzione delle esportazioni energetiche dalla Russia paiono al momento abbastanza remoti, dal momento che le esportazioni di energia costituiscono la metà del suo bilancio e l’intera economia russa è fortemente dipendente dalla vendita all’estero di materie prime. Il problema è che ovviamente gli esiti del conflitto armato sono del tutto incerti e che questa incertezza, combinata con la speculazione, viene scontata nella formazione dei prezzi tendendo ad aumentarli. 

Lo scenario più verosimile che ci attende è quello della stagflazione: elevata inflazione che coesiste con elevata disoccupazione. Non è uno scenario tranquillizzante, a fronte del quale non pare che il Governo italiano – né l’Unione europea – sia attrezzato per una risposta adeguata. La diversificazione delle fonti di energia richiede tempo, quantomeno per arrivare a una indipendenza apprezzabile rispetto al gas russo. Nel frattempo, per fenomeni di isteresi, il calo della produzione interna può non essere assorbito. Il potenziamento dell’uso dell’energia eolica potrebbe essere una parziale e ragionevole soluzione, benefica, peraltro, sotto molti punti di vista. Innanzitutto si tratta di un’energia ‘pulita’ che dovrebbe accompagnare la transizione energetica anche in assenza del conflitto armato. In secondo luogo, si tratta di una fonte facilmente reperibile in Italia e, in particolare, nel Mezzogiorno.

L’Italia ha già perso troppo tempo sul fronte degli investimenti in energia rinnovabile, fermi o addirittura in calo nell’ultimo decennio, avendo scommesso sul facile approvvigionamento di energia dall’oriente. Si calcola che l’installazione delle rinnovabili cala del 92% fra il 2011 e il 2012 e resta sostanzialmente nulla fino a oggi. 

La speculazione e i prezzi

Nei manuali di Economia si legge che il prezzo dei beni è determinato dall’incontro fra domanda e offerta. Gli studenti, già dal primo anno, sono quindi predisposti a ritenere che qualsiasi intervento esterno al mercato sia distorsivo.

 In particolare, se lo Stato interviene calmierando i prezzi questo determina un eccesso di offerta di beni, che si traduce nel fatto che le imprese non trovano consumatori disposti ad acquistarli. La guerra in Ucraina sta manifestando all’opinione pubblica, e anche ai nostri studenti, che le cose non stanno così.

Il Ministro Cingolani ha parlato di aumenti dei prezzi ingiustificati, di vere e proprie “truffe”. Di cosa si tratta? Ed è possibile far riferimento a truffe nel descrivere il funzionamento di un’economia di mercato? La risposta va cercata nel ruolo dell’intermediazione. Si tratta sostanzialmente di questo. Il prezzo dei beni agricoli venduti e acquistati su scala globale è deciso in alcuni “mercati” nei quali si danno quotazioni degli stessi e nei quali si hanno, come in borsa, attività speculative (si vende quando il prezzo è alto, si acquista quando il prezzo è basso). Questi mercati funzionano anche indipendentemente da ciò che accade nelle economie “reali”, cioè anche indipendentemente da fenomeni di scarsità o eccesso di offerta del prodotto venduto e acquistato. Non ha senso, tecnicamente, parlare di truffe, ma ha senso far riferimento a dinamiche speculative che si autoalimentano in regime di guerra e che accrescono le diseguaglianze: la speculazione accresce i profitti degli intermediari e riduce i redditi reali dei percettori di redditi bassi e fissi. Il prezzo sul mercato reale non è che una piccola parte del prezzo finale del gas. Su questo incide non da poco appunto la speculazione finanziaria fatta da fondi di hedge, banche e altri operatori che di fatto Scommettono sul prezzo stabilito dall’hub di Amsterdam e su altri listini. Si calcola che sono esposti a un simile fenomeno ben 218 soggetti finanziari e 164 sono apertamente speculativi a fronte del fatto che i soggetti commerciali, quelli che realmente commerciano gas, sono solo 134. 

Gli aumenti dei prezzi – anche per il Governo – sembrano essere ingiustificati anche in altri settori, in particolare nella produzione e vendita di energia. Dato il carattere oligopolistico dei mercati nei quali viene l’energia viene venduta, è opportuno valutare la necessità di intervenire: si ragiona, su questo fronte, intorno alle opzioni tassare gli extraprofitti e ridurre le accise. La seconda opzione, se presa da sola, è più problematica per il Governo, dal momento che, a parità o perfino con l’aumento della spesa pubblica, comporta, in nome della libertà d’impresa, uno scostamento di bilancio, che, come chiarito dal Presidente Draghi, dovrebbe essere concordato in sede europea. La tassazione degli extra-profitti ha la sua ratio nella circostanza che le imprese non li utilizzano per investimenti e tantomeno per innovazioni, ma tendono a tesaurizzarli. Non è incostituzionale, come pretende Confindustria, sebbene il calcolo degli extra-profitti possa prestarsi ad alcune difficoltà tecniche. 

Nell’ipotesi del Governo l’extraprofitto si calcola come differenza fra operazioni attive e passive al netto dell’IVA del semestre che intercorre fra il primo ottobre 2021 e il 31 marzo 2022 con l’analogo semestre a cavallo fra 2020 e 2021. Se questa differenza è positiva e superiore a 5 milioni viene tassata al 10%.  Si calcola, a riguardo, che un litro di benzina senza accise avrebbe circa la metà del prezzo attuale (poco più di 1 euro) e che la totale abolizione delle accise costerebbe allo Stato, in termini di minor gettito, circa 35 miliardi. 

Contestualmente, la BCE sta preparando l’avvio di nuove misure per contrastare l’inflazione. Ma vi è un problema. In una condizione prossima alla stagflazione, quale nella quale siamo, ovvero di coesistenza di alta inflazione e di stagnazione, la politica monetaria è a un bivio: deve essere espansiva per accrescere gli investimenti e generare crescita, deve avere il segno contrario per tenere sotto controllo i prezzi. Sono decenni, in effetti, che il tasso di inflazione non raggiungeva le cifre di oggi. Si tratta del 7.9% negli USA (cifra che non si vedeva da lontano 1982) a fronte di una previsione della BCE del 7.1% nel 2022 (il tasso di inflazione target, fissato al 2%, si avrebbe – stando alle previsioni – solo nel 2024). Il bivio nel quale si trova la gestione della moneta è notevolmente accentuato dai rischi di ulteriore finanziarizzazione. E’ quanto è accaduto negli ultimi decenni e quanto sta accadendo oggi. La finanza può costituire un potente strumento di freno degli investimenti produttivi e di redistribuzione del reddito a danno dei percettori di redditi bassi e fissi (cfr. Forges Davanzati, Pacella e Salento, 2019). Per ridurre il peso delle attività speculative occorrerebbe modificare la struttura normativa sugli strumenti derivati, negoziando in sede WTO (Organizzazione mondiale del commercio) e riportandoli alla loro natura originaria di assicurazioni contro i rischi del mercato reale.

 Le sanzioni logorano chi le fa 

E’ stato calcolato che, ad oggi e durante il pieno dispiegarsi dell’egemonia statunitense, un terzo della popolazione mondiale è soggetto a sanzioni e che, fra il1990 e il 2000, le misure imposte dagli Stati Uniti sono quasi raddoppiate rispetto al periodo 1950-1985 (Greene, 2021). Occorre chiedersi se le sanzioni applicate alla Russia siano efficaci e se producano effetti collaterali per chi le impone, e per l’economia italiana. La risposta è che le sanzioni, salvo casi del tutto eccezionali, non funzionano e possono produrre effetti economici indesiderati[i].

Swift è l’acronimo di Society for Worldwide Interbank Financial Telecomunication ed è una piattaforma di comunicazione, con sede legale in Belgio, istituita nel 1973, usata da banche e società di intermediazione per scambiare informazioni sui trasferimenti internazionali di denaro. Lo Swift è utilizzato per garantire la massima sicurezza su queste transazioni attraverso l’uso di codici standard. Si calcola che Swift consente pagamenti internazionali nell’ordine di cinque miliardi di dollari al giorno trasferiti da circa undicimila soggetti di oltre duecento Paesi (Maronta, 2022). 

Già a partire dai primi giorni della guerra, la Russia è stata esclusa dal circuito Swift e gli analisti si chiedono se ciò comporti effettivamente danni ingenti alla sua economia: quella che è stata definita la madre di tutte le sanzioni. Il più prossimo precedente di una sanzione del genere lo si ritrova ai danni delle banche iraniane nel 2012: ebbe successo, ma è da ricordare che l’Iran era stato di fatto isolato dalla comunità finanziaria internazionale. Oggi, per la Russia, alternative a Switf esistono e si chiamano in primo luogo Cips e criptovalute. Cips è un’istituzione, analoga a Switf, sviluppata in Cina a partire dal 2015, alla quale fanno capo diciannove grandi banche cinesi e altre di quarantasette Paesi[ii]. Le criptovalute, valute che circolano esclusivamente on-line ‘in parallelo’ rispetto a quelle ufficiali, potrebbero rappresentare un’ulteriore fonte di diversificazione del rischio per la finanza russa (Maronta, 2022, p.93).

In economie nelle quali la gran parte della moneta circolante è dematerializzata e nelle quali vi è forte e crescente interdipendenza fra i sistemi bancari, l’imposizione di sanzioni rischia di produrre un effetto boomerang articolato in questi passaggi. Le sanzioni riducono i trasferimenti di liquidità fra soggetti; si traducono, quindi, in un calo generalizzato di fiducia che si manifesta, anche nei Paesi che le hanno imposte, in restrizione del credito: dunque calo della produzione e dell’occupazione.

Un secondo fronte sul quale si esercitano le sanzioni è quello dell’energia, con il blocco del gasdotto Nord Stream 2. Il Nord Stream 2, lungo 1.200 chilometri (745 miglia) sottomarino, che va dalla costa baltica russa alla Germania nord-orientale, è costato 12 miliardi di dollari e segue lo stesso percorso del Nord Stream 1, completato più di dieci anni fa. Come il suo gemello, Nord Stream 2 sarà in grado di portare 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Russia all’Europa, aumentando le forniture di gas a un prezzo relativamente basso. 

Il gruppo russo Gazprom ha una partecipazione di maggioranza nel progetto da 10 miliardi di euro (12 miliardi di dollari). Nell’azionariato della società che lo gestisce ci sono anche le compagnie tedesche Uniper e Wintershall, la francese Engie, l’anglo-olandese Shell e l’austriaca Omv. Il 22 febbraio 2022 la Germania ha sospeso il processo di certificazione di Nord Stream 2,

ritardandone ulteriormente l’entrata in servizio. Sull’efficacia di questo strumento sanzionatorio può essere utile rivolgersi al recente passato, attraverso uno studio del Kiel Institute sugli effetti delle sanzioni per la Crimea (Crozet and Hinz, 2016) dal quale si evidenzia che, nel periodo oggetto di esame, le sanzioni hanno danneggiato soprattutto, se non esclusivamente, i Paesi che le hanno imposte. Ciò a ragione dell’elevata dipendenza europea, e italiana in particolare, dal gas russo, accresciuta dall’assenza di una politica energetica comune europea (v. Pedde, 2022). Una ulteriore ragione contro le sanzioni è che esse rischiano di alimentare l’economia irregolare nel Paese che le subisce (cfr. Messina, 2022).

La ritorsione russa non si è fatta attendere. Il 23 marzo è stato annunciato un provvedimento che obbliga al pagamento del gas russo in rubli. Il meccanismo ipotizzato da Mosca è questo: una volta in vigore, questo provvedimento obbligherà gli Stati ostili a acquistare rubli per comprare gas, accrescendo la domanda di valuta russa e, dunque, contribuendo alla sua rivalutazione. Se nei primi giorni dopo le sanzioni il cambio si era deprezzato rapidamente, inducendo a pensare che il sistema finanziario russo sarebbe esploso in poco tempo, con il trascorrere dei giorni ci si è accorti dell’improbabilità di questo evento. La contromisura annunciata da Mosca potrà avere l’ulteriore effetto di attribuire un ruolo centrale, nei mercati azionari dell’Occidente, alle istituzioni finanziarie russe, rendendo più difficile procedere a nuove sanzioni.

Perché opporsi al riarmo. Il 15 marzo 2022 la Camera dei Deputati, su iniziativa della Lega e con l’opposizione di Sinistra Italiana e di “Alternativa”, ha approvato un ordine del giorno che impegna il Governo ad aumentare le spese militari fino al 2% del Pil. Si tratta di una decisione che si muove nella direzione ormai intrapresa dai precedenti Esecutivi, e in linea con la corsa al riarmo in Europa (Germania in primis), che, secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato, porterà il bilancio annuale della Difesa da 25 a 28 miliardi di euro. Per avere un paragone si può citare la spesa sanitaria; nel 2019, pre-COVID, aera di 115 miliardi, quest’anno è passata a 123 miliardi, circa il 7% in più. Quello auspicato per la Difesa sarebbe del 47%. Si tratterà soprattutto di nuovi investimenti in armi: ovvero di investimenti che fanno crescere i già lauti profitti delle imprese militari. A riguardo, si registrano già andamenti positivi per l’industria militare in borsa. L’aumento delle spese militari, oltre a essere discutibile sul piano etico e costituzionale, lo è anche sotto il profilo economico. Un recente studio del Parlamento europeo ha stabilito che, in Europa, le spese per gli armamenti sono spesso duplicate e allocate in modo inefficiente: servirebbe non un loro aumento, ma una loro razionalizzazione. Gli argomenti utilizzati a favore di un aumento delle spese militari, entrambi falsi, sono due: 

a) La decisione riflette una richiesta della Nato. A ben vedere, per contro, l’innalzamento del tetto di spesa al 2% del Pil è in linea con un aumento sistematico delle spese militari degli ultimi anni e fa capolino a partire dal 2006 in un accordo informale fra i Ministri della Difesa e rilanciato al vertice dei capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles. Accordo mai ratificato dal Parlamento. Si calcola, poi, che le spese militari in Italia sono aumentate dai 21.5 miliardi del 2019 ai 25.8 previsti per il 2022, soprattutto per l’aumento dei fondi per nuovi armamenti (da 4.7 a 8.2 miliardi l’anno). E ancora: le spese militari dei Paesi europei sono aumentate del 24.5% a partire dal 2016. 

b) Le spese militari costituiscono un deterrente rispetto all’evolversi del conflitto armato. Anche questo argomento è agevolmente criticabile, da due punti di vista. In primo luogo, vi è un’enorme sproporzione fra quanto spendono i Paesi belligeranti e quanto spende l’Italia, così che il nostro peso militare nella risoluzione del conflitto è del tutto irrisorio. In secondo luogo, le spese militari hanno effetti di lungo periodo, mentre la risoluzione della crisi in corso richiede interventi di breve periodo.

C’è di più. Uno studio di “Sbilanciamoci” ha messo in evidenza la necessità di una riforma delle forze armate italiane. Si spende troppo per le forze armate in Italia: troppi sprechi, troppe spese inutili, troppi soldi per le armi, troppi privilegi per una casta che in questi anni ha saputo ben difendere i propri interessi corporativi e rinviare quella necessaria riforma della Difesa che manca da troppo tempo.

Poiché le nuove spese per armamenti vengono effettuate in costanza di bilancio pubblico, esse configurano una redistribuzione del reddito a danno dei salari e a vantaggio in primis della filiera produttiva della Difesa. In più, l ricadute occupazionali sembrano essere irrisorie. Si consideri, ad esempio, il sito di Cameri, dove verosimilmente verranno prodotti e assemblati i nuovi F35: a fronte di una stima di 10.00 occupati in più, non ha mai assunto più di 1031 dipendenti, con una differenza del 40% dall’ultima proiezione.

Bibliografia

Comito, V. (2022). L’economia russa post-sovietica, “Sbilanciamoci”, 17 marzo.

Crozet, M. and Hinz, J. (2016). Friendly fire. The trade impact of the Russia sanctions and counter sanctions, Kiel working paper 2059, Kiel Institute for World Economy, November.

Forges Davanzati, G. and Giangrande, N. (2020). Labour market deregulation, taxation and labour productivity in a Marxian-Kaldorian perspective: the case of Italy, “The Cambridge Journal of Economics”, 4 n.2, pp.371-390.

Forges Davanzati, G., Pacella, A. and Salento, A. (2019). Financialisation in context: The Italian case, “The Cambridge Journal of Economics”, July, pp.1-20

Greene, M. (2021). The limits of U.S. sanctions in dealing with Russia are becoming clear, “Financial Times”, 15/12.

Maronta, F. (2022). La madre di tutte le sanzioni è un’arma spuntata, “Limes”, pp.87-99.

Messina, A. (2022). Sanzioni economiche e finanza privata: cosa va cambiato, “Sbilanciamoci”, 19 marzo.

Pedde, N. (2022). Chiudere il gas non conviene a nessuno, “Limes”, pp.101-105.

Sbilanciamoci (2012). Economia a mano armata. Libro bianco sulle spese militari https://sbilanciamoci.info/wp-content/uploads/2018/09/2012_economiaamanoarmata.pdf

Vignarca, G. (2022). La strada sbagliata dell’aumento delle spese militari, “Il Manifesto”, 20 marzo. 

Oltre a quelle citate in bibliografia, le fonti informative sono costituite dai quotidiani “ll Sole 24 ore”, “Il Manifesto”, “Il Fatto quotidiano”. Questa stesura è stata terminata a fine marzo 2022.

Guglielmo Forges Davanzati (Napoli, 1967) è professore associato di Economia Politica all’Università del Salento, dove insegna Economia Politica e Storia del pensiero economico. E’ componente del Cambridge Center for Economic and Public Policy e autore di numerose pubblicazioni su riviste scientifiche italiane e internazionali. I suoi interessi di ricerca riguardano soprattutto il funzionamento del mercato del lavoro, gli squilibri regionali nell’Eurozona e in Italia e l’istituzionalismo.


[i] Cfr. Comito (2012) per un inquadramento sull’economia russa e sulla politica economica di Putin.

[ii] Per ulteriori approfondimenti sul ruolo della Cina nel sistema dei pagamenti internazionale si rinvia a

https://thecradle.co/Article/columns/7975?fbclid=IwAR3kkOmhsKoFc5XshKfgVbQ-

ZlbRB643JVl2e37erfWyWiWrMml0iJhhSXs

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