Le guerre e l’etica della contorsione
Alberto Bradanini*
Il mondo non va come dovrebbe. I sempiterni valori di uguaglianza, libertà e solidarietà, che la Rivoluzione francese aveva fatto esplodere contro l’universo statico e oppressore dell’ancien régime, continuano a galleggiare sui flutti della storia. Ancora oggi è il deficit di quei valori a generare guerre e distruzioni, mentre i ceti dominanti inseguono le illusioni di sempre, potere e ricchezza, a dispetto dei bisogni essenziali degli esseri umani. I governi vogliono le guerre, non i popoli, anche perché sono questi a morire. Un filosofo del secolo scorso affermava che i conflitti armati finirebbero tutti e per sempre se venisse adottata la seguente norma costituzionale universale: “coloro che dichiarano una guerra devono recarsi essi stessi al fronte, insieme ai loro figli e parenti”. I potenti decidono le guerre, ma a morire è sempre la povera gente.
Nella società occidentale, massimamente in Italia, la plumbea criminalizzazione del dissenso, che punta a decomporre ogni progetto di sovranità politica, emancipazione sociale e giustizia distributiva, rivela un’inedita percezione di pericolo da parte del sistema, o forse il suo opposto, una corretta autopercezione di onnipotenza. Una scena ambigua e inquietante, tutta da esplorare.
Dopo Vietnam, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen, e via dicendo, cui si devono aggiungere decine di colpi di stato, tentati e riusciti, nascosti e palesi1, vengono ora Ucraina e Palestina. L’esito funesto (25/30 milioni di morti2, milioni di rifugiati e sofferenze indicibili di tanti esseri umani) è un freddo calcolo statistico per gli intellettuali organici, accademici e politici dell’odierno palcoscenico de-eticizzato di un potere cinico e corrotto.
Il momento unipolare della potenza egemone – situabile tra il 1991, l’anno della dissoluzione dell’Unione Sovietica, e il 2012/2016 – è oggi al tramonto, dopo il riemergere della Russia e il consolidamento della Cina, insieme all’apparire nella storia del Sud Globale, finalmente cosciente delle sue nascoste potenzialità.
Nella storia, la sola cosa stabile, come noto, è il cambiamento. La nozione di complessità e le esigenze di spazio impongono qui di riservare qualche concisa riflessione ad alcuni aspetti cruciali delle tragedie in corso, tralasciarne molti altri.
Da qualche tempo l’Occidente a guida Usa predilige la consuetudine di esportare i suoi preziosi valori, tra cui democrazia e diritti umani (o meglio la curvatura occidentale di essi), attraverso la didattica dei bombardamenti etici su popolazioni riluttanti ad assumere la sola posizione consentita, quella del missionario. La moneta è falsa e ben visibile, ma pochi la scorgono, mentre i governi di turno si affannano a coprire le ingiurie.
A chi giovano i conflitti
Quando si getta uno sguardo sulla genesi e le responsabilità dei conflitti emerge inequivocabile che ad arricchirsi sono sempre alcuni gruppi, sia nei paesi che li hanno iniziati o sono rimasti neutrali, sia in quelli che li hanno subiti. Una lunga schiera di analisti (v. per tutti Lindsay O’Rourke, Covert Regime Change, Cornell University, 2018) ha provato con documenti, articoli e interviste (reperibili sul web) che a partire dal dopoguerra i principali beneficiari dei conflitti sono stati gli Usa. Le ragioni sono note anche alle pietre e dunque prendiamo la libertà di non ripeterle. Nel mondo attuale, gli Stati Uniti costituiscono il garante strategico-militare dell’egemonismo estrattivo, una plutocrazia bulimica che promuove i suoi diritti aggredendo popoli indifesi, esportando un sistema malsano con ordigni al napalm, diffondendo uno strumentale complesso di colpa olocaustico scontabile solo nell’eternità, imponendo la mistica di una cultura superiore, della nazione voluta da Dio per governare un mondo irrequieto – al cui fine si renderebbero necessarie le 800 basi militari disseminate nel mondo – più altre perle di mitologica superiorità. E non si valutino tali affermazioni con la lente del pregiudizio antiamericano, poiché l’avversario – è bene ripeterlo a chiare lettere – non è il popolo americano, del resto asservito come altri e politicamente tra i più analfabeti del pianeta, ma la sua oligarchia plutocratica, predatoria e bellicista.
Nel suo libro magistrale (1984), George Orwell sostiene che la guerra non ha il fine di sconfiggere il nemico, ma di preservare la medesima struttura divisoria all’interno della società guerreggiante, vale a dire proteggere i privilegi dei ricchi e mantenere i poveri nella loro condizione, con l’aiuto dei ceti di servizio, politici, giornalisti e burocrati (esercito, forze dell’ordine, accademia e via dicendo), tutti ricompensati con onori, carriere e laute prebende. Pace e guerra, nell’analisi critica di Orwell, tendono a sovrapporsi nell’ontologia dell’immutabilità, perdendo la loro caratteristica di contesti contrapposti, e diventano due profili di un medesimo destino: il Ministero della Pace è incaricato di preparare la guerra, quello della Verità di fabbricare menzogne, il Ministero dell’Amore di praticare la tortura, quello dell’Abbondanza di rendere scarsi beni e servizi, in una distopia senza fine, riflettendo la nota trilogia ossimorica: la Pace è Guerra, la Libertà è Schiavitù, l’Ignoranza è Forza. Divenendo perenne, la nozione di conflitto cessa di essere tale e diventa guerra-pace, uno stato fusionale dove i contorni si perdono nella nebbia.
La narrativa dominante – dalle cui labbra pende anche l’aristocrazia intellettuale della cosiddetta “sinistra europea” (il sostantivo vale qui anche come aggettivo) – afferma che “il nemico sarebbe alle porte” (Russia, Cina, Iran e ogni altro paese disobbediente), che nel Regno del Bene le libertà democratiche, i diritti civili e persino la nostra sicurezza sarebbero in pericolo, un’ingiuria lessicale priva di un’ombra di evidenza. Tuttavia, se sapremo difendere l’ordine internazionale basato sulle regole (le nostre, ça va sans dire), la vittoria sul Regno del Male sarà assicurata.
Chi reputa di vivere in una società democratica (etimologicamente governata dal popolo, seppure attraverso le forme della rappresentanza) potrebbe riflettere su alcuni recenti episodi. Il 1.mo settembre 2022, il Ministro degli esteri tedesco, Annalena Baerbock, afferma: “sappiamo che la maggioranza dei tedeschi è contraria all’invio di armi all’Ucraina, ma a noi non importa, lo facciamo lo stesso”. Qualche mese prima, l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel – seguita poi dall’ex presidente francese, François Hollande, e dall’ex presidente ucraino, Petro Poroschenko – confessa candidamente che quando era alla guida della Germania aveva aderito agli accordi di Minsk 1 e 2 (2014 e 2015) solo per guadagnare tempo e prepararsi meglio al conflitto armato contro la Russia. Il suo intento non era dunque la soluzione della tragedia del Donbass – che se avesse ottenuto l’autonomia linguistico/culturale prevista nei citati Accordi, firmati anche dalla Russia, sarebbe rimasto sotto sovranità ucraina – ma la guerra! Qualcuno potrebbe aiutarci a situare pace e democrazia nel nostro fatato mondo occidentale.
Quanto al secondo conflitto ora in atto, quello in Medioriente, la questione palestinese è di una limpidezza imbarazzante, a dispetto di tante contorte analisi alla ricerca di complicate eziologie: vi è un popolo oppresso e un popolo oppressore, quest’ultimo libero di agire con la totale impunità perché sostenuto dalla più grande potenza militare del pianeta, gli Stati Uniti.
Se poi il perseguimento della pace non si accompagna alla giustizia, affrontando i sottostanti squilibri di sovranità, sicurezza e distribuzione della ricchezza, essa resta un obiettivo utopico e gli eventuali risultati raggiunti in itinere dileguano presto nell’intreccio degli eventi. Nel merito, come rilevava dall’alto della sua veneranda età l’ex segretario di stato americano H. Kissinger, uno dei più grandi organizzatori di colpi di stato mai apparsi in terra: “essere nemici degli Stati Uniti è pericoloso, essere amici degli Stati Uniti è fatale”. E l’incedere della storia dirà se gli accadimenti che si svolgono oggi in Palestina/Israele non finiranno per presentare il conto, tramutandosi nell’incipit di un declino strategico dello stato di Israele.
Il terrorismo e il diritto internazionale
Sui teatri di guerra, alla violenza militare codificata dal diritto s’accompagna spesso un’altra pratica, il terrorismo, la cui nozione condivisa è tuttora assente nelle norme internazionali. Ciò che ha impedito la messa a punto di un’apposita convenzione, a dispetto dei numerosi tentativi, sono state le contrapposte posizioni di Stati Uniti – insieme ai paesi occidentali/europei, sempre chini agli ordini del padrone, e al principale alleato americano in MO, Israele – da una parte, e il mondo arabo-mussulmano dall’altra. Una contrapposizione su un aspetto fondamentale, l’inclusione o meno della nozione di terrorismo di stato. Tale ipotesi, infatti, avrebbe aperto la strada alla possibile incriminazione dei citati paesi davanti alla Corte Penale Internazionale (per quella morale basta l’evidenza).
Nell’accezione intuitiva un atto di violenza diventa terrorismo quando è finalizzato a diffondere il terrore, uccidendo persone innocenti e distruggendo infrastrutture civili: diverse legislazioni nazionali, del resto, lo qualificano in questo modo. Ed esso è tale sia se commesso da gruppi armati mossi da ragioni politiche, religiose, etniche o altro, sia se i responsabili si trincerano dietro le insegne protettive di uno stato (apparati militari, servizi, polizia, etc.). Sempre di terrorismo si tratta!
Deve aggiungersi che rispetto alle azioni di gruppi armati l’attività terroristica è ben più efficace quando è perpetrata da uno stato (basti pensare alle dittature sudamericane, tra cui quelle argentina e cilena di Videla e Pinochet, e a quanto avviene ora a Gaza), disponendo esso di armi, uomini e risorse tecnologiche assai più cospicue.
Quando a commettere terrorismo è un gruppo armato, d’altro canto, la reazione dello stato contro i colpevoli dovrebbe assumere i lineamenti di un’operazione chirurgica, rispettando sempre le regole del diritto e l’odierna civiltà giuridica, che rifuggono dal medievale concetto di colpa collettiva e di vendetta trasversale. Nel nostro vivere quotidiano, nessuno oserebbe sostenere il diritto della polizia a incendiare la casa di un assassino insieme alla sua famiglia, persino qualora fosse provato che egli si trovasse al suo interno.
Trattandosi inoltre di un fenomeno politico, poiché il terrorismo non è un’attività di criminalità comune che punta all’illecito arricchimento, uno stato degno del suo nome è tenuto ad affrontare le radici del fenomeno, mettendo a nudo i problemi che lo hanno generato.
In Palestina, lo stato di Israele (dietro lo scudo protettore americano) si allontana dalla civiltà attraverso la disumana pratica della rappresaglia, persino contro bimbi, donne, anziani! Una pratica questa che punta sembra puntare a due obiettivi: a) punire la popolazione civile perché insorga contro Hamas; b) espellere gli abitanti di Gaza per sottrarre loro terre e abitazioni, in linea con la prassi annosa e illegittima perseguita da Israele in Cisgiordania.
Va da sé che in questa analisi la religione non ha posto alcuno. La tragedia sofferta dal popolo ebraico nel secolo scorso per mano dei nazisti tedeschi (e non solo) resterà scolpita per sempre nella nostra memoria e nei nostri cuori. Tantomeno trova posto la nozione di etnia ebraica, anch’essa turpe manipolazione dei mestatori di un razzismo che si spera consegnato per sempre alla spazzatura della storia. Israeliani e Israele stanno invece a designare i cittadini e lo stato da essi abitato, che persegue fini politici talvolta condivisibili, altre volte no. Tali chiarimenti sono banali, oltre che scontati, ma non si sa mai. Sono frequenti gli episodi di persone accusate di antisemitismo (che semmai dovrebbe essere antigiudaismo), per aver espresso critiche politiche allo stato di Israele.
Infine, la piccola politica (quella dei nostri governi) si occupa di cose piccole, della finta dialettica tra partiti che si caratterizzano solo per la diversa capacità d’intrattenimento serale. La grande politica invece vuole cambiare la società, si batte per la giustizia, il lavoro, la libertà dal bisogno, i servizi pubblici, l’emancipazione culturale, e sulla scena internazionale si oppone alla guerra, ai massacri, al colonialismo/neocolonialismo, lotta per l’emancipazione dei popoli, rispettandone i diritti e le diversità.
Epilogo
“Paura, dubbio e cautele di tipo ipocondriaco ci stanno chiudendo in una gabbia. Abbiamo invece bisogno del respiro della vita. Non v’è nulla di cui aver paura. Al contrario, il futuro ci riserva più ricchezza, libertà economica e opportunità di vita di quante non ne abbiamo mai godute in passato. Non v’è ragione alcuna per non sentirci audaci, aperti all’avventura, attivi e alla ricerca di tante possibilità. Là di fronte a noi, a bloccare la via vi sono solo alcuni anziani signori, stretti nei loro abiti talari, che hanno bisogno di essere trattati con un po’ di amichevole irriverenza e buttati giù come birilli”. Non sono, queste, parole di chi scrive, e a pronunciarle non è stato Marx o Lenin, ma John Maynard Keynes, il più grande economista liberale del XX secolo (scuola alla quale noi, pure, non apparteniamo), una personalità che si è battuta per un’economia etica e il benessere condiviso, e sensibile ai bisogni primari degli uomini, il primo dei quali, sia per lui che per noi, resta la pace.
1 https://www.cornellpress.cornell.edu/book/9781501761737/covert-regime-change/#bookTabs=1
2 https://ilmanifesto.it/dal-1945-ad-oggi-20-30-milioni-gli-uccisi-dagli-usa
Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra gli incarichi ricoperti, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. È autore di libri e saggi. Ha pub- blicato “Oltre la Grande Muraglia” Ed. Bocconi 2018; “Cina, l’irresistibile ascesa”, Ed. Sandro Teti, 2022, e “Cina, dall’umanesimo di Nenni alle sfide di un mondo multipolare”, Ed. Anteo, 2023.