Le guerre sono funzionali alle élites che governano gli Stati Uniti

Elena Basile*

Israele attraverso gli Stati Uniti, il Qatar e l’Egitto tratta con Hamas sugli ostaggi. I componenti del vertice politico di Hamas, comodamente lontani dall’inferno di Gaza, provano a salvare la propria vita. La catena di comando non si spezza e i miliziani sacrificati prendono ordini dal Qatar. Credibile allora quanto dichiara il vertice politico di Hamas circa la propria estraneità agli eventi del 7 ottobre?

Israele negozia ma indugia sul rilascio di donne e bambine palestinesi rinchiuse nelle sue carceri. L’opinione pubblica non batte ciglio. Israele incarcera bambine ma va tutto bene. La destra Israeliana che ha utilizzato l’alibi del terrorismo di Hamas per continuare l’assedio di Gaza e gli insediamenti illegali in Cisgiordania, ora negozia dimostrando che avrebbe potuto farlo a partire dal 2007, accompagnando Hamas nell’evoluzione da organizzazione terrorista a interlocutore legittimo come già avvenuto con l’OLP.

C’è mai stata la volontà statunitense e israeliana di avere un interlocutore legittimo per poter pervenire alla soluzione dei due Stati? I fatti sembrano farci dubitare di una reale volontà politica in questo senso. Israele ha sostenuto Hamas, finanziariamente e politicamente, di intesa con la CIA al fine di non dovere accettare la ANP come controparte in negoziati diplomatici con al centro la causa palestinese. Questi sono fatti purtroppo, non elucubrazioni antisemite.

La pace in Medio Oriente è una questione complessa che ha responsabilità distribuite tra Occidente, Stati Arabi e milizie disperate terroriste. Attraversa più di un secolo di storia e è stata influenzata dal colonialismo, dal panarabismo , dal movimento dei non allineati, dagli interessi petroliferi della compagnie americane, dalle guerre per l’esportazione della democrazia e dalla proliferazione nucleare. 

La spartizione di una terra araba tra ebrei e palestinesi, decretata dalle Nazioni Unite nel 1948 ha visto comprensibilmente l’opposizione palestinese man mano temperata da considerazioni maggiormente realistiche. La proclamazione dello Stato di Israele nel 1948, è stata da un lato il coronamento di un sogno di un popolo senza Stato e martoriato dalle persecuzioni, dai pogrom che si sono ripetuti nei secoli. Dall’altro lato è stato l’inizio di una tragedia, la Nakba per i palestinesi, che sono stati uccisi e costretti a abbandonare le loro case, le loro terre, a proletarizzarsi, a divenire sradicati. 700.000 profughi dispersi nei paesi vicini e a Gaza. Gli arabi di Israele non possono celebrare la Nakba. Lo Stato israeliano , forte di una classe dirigente abile nel perseguire i propri interessi, colta e in grado di stabilire istituzioni liberali e buoni rapporti con l’occidente ha avuto finanziamenti importanti dagli americani che ne hanno determinato lo sviluppo economico, tecnologico e militare. L’unica democrazia del Medio Oriente come viene chiamata ha man mano creato una classe di cittadini di serie B, gli arabi, discriminati da legislazioni ad hoc. 

Dall’altra parte i paria, i palestinesi traditi dagli Stati arabi che hanno utilizzato la causa di uno Stato palestinese per perseguire i propri interessi, sono sfuggiti a una condizione di atroce povertà e subalternità, prendendo coscienza di sé nei campi profughi, abbracciando la lotta politica e la lotta armata. Le guerre arabe sono state vinte da Israele che ha potuto estendere il proprio territorio all’inizio stabilito dalla Ris. 181 ONU al 56% della Palestina mentre il 44% era attribuito allo Stato Palestinese. Dopo la guerra dei sei giorni Israele moltiplica il suo dominio. La sinistra laburista considera i territori occupati merce di scambio in negoziati che avrebbero dovuto stabilire frontiere sicure per uno Stato in pace. Il Likud, la destra israeliana elabora invece una visione diversa che ha poi prevalso. Le terre sono state liberate e devono essere parte integrante di Israele. Lo Stato non ha ancora delineato i suoi confini. Le attività dei coloni sono legali e vanno incentivate. 

Oggi l’ipotesi dei due Stati è resa impossibile dalla cartina geografica. Il territorio che avrebbe dovuto essere del futuro Stato palestinese è parcellizzato. Barriere e percorsi obbligati, violenza dei coloni sui palestinesi in Cisgiordania hanno portato le organizzazioni umanitarie e le Nazioni Unite a definire il regime di occupazione israeliano come apartheid. Gli Stati Uniti , anche quando hanno osteggiato singole fasi della politica di Tel Aviv, non hanno mai votato a favore di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU di condanna. Obama si è astenuto una volta e ha permesso in questo modo che una condanna internazionale degli insediamenti illegali in Cisgiordania fosse approvata. Gli Stati Uniti hanno comunque assicurato l’impunità a Israele non volendo mai esercitare le leve politiche, economiche e finanziarie che hanno a disposizione. L’Europa, con qualche eccezione che sta gradualmente disparendo, si è appiattita sulla politica statunitense Di fronte ai crimini di guerra perpetrati in maniera ricorrente da parte di Israele contro la popolazione di Gaza non vi sono mai state sanzioni . Nell’approccio a Israele e alla Russia, i doppi standards di un Occidente senza più credibilità sono evidenti.

Le manifestazioni di solidarietà ai bambini di Gaza, che soltanto una bieca propaganda può considerare quali giustificazione dell’eccidio di Hamas del 7 ottobre, possono influenzare, data l’imminenza delle elezioni politiche USA e europee, la linea adottata.

Settanta risoluzioni ONU non sono state applicate da Israele. Citiamo la 242 del Consiglio di sicurezza, con effetti vincolanti, che chiedeva il ritiro dai territori occupati in cambio del riconoscimento dello Stato di Israele. Oggi Israele è riconosciuto dalle monarchie del Golfo, Turchia, Egitto, Giordania, dall ANP. Purtroppo il regime di occupazione, l’assedio di Gaza continuano e nelle forme più brutali.

Se la politica statunitense cambiasse, malgrado il potere di condizionamento oggettivo sulla politica di Washington esercitato dai donatori ebrei e cristiani, dall’AIPAC, si potrebbe giungere a una Ris. del CDS dell’ONU per il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi, e l’inizio di negoziati nell’ambito di una conferenza di pace con tutti gli attori in campo. Per poter essere efficace la risoluzione dovrebbe essere accompagnata da una politica di sanzioni nei confronti del governo di Netanyahu.

L’Occidente e gli Stati Arabi hanno le leve per favorire il ritorno alla strategia lungimirante che vi è stata fino agli anni duemila da parte israeliana. Bisognerà tuttavia negoziare con tutti con Fatah e con Hamas, con gli Arabi alleati, con l’Iran, con gli Hezbollah, con Russia e Cina.

Sarebbe questa un’ipotesi realistica se la politica di Washington mutasse a 360 gradi, mettendo da parte la tragica postura muscolare neoconservatrice e guidasse la riforma del multilateralismo in linea con le richieste BRICS, inaugurando un’epoca di convivenza pacifica guidata dalla diplomazia.

Esistono tuttavia delle ragioni oggettive e storiche per la deriva militarista dell’Occidente. La globalizzazione avrebbe dovuto permettere secondo gli strateghi liberali lo stesso esperimento che era stato portato a termine con successo con Germania e Giappone, potenze perdenti della seconda guerra mondiale. Esse erano state de-sovranizzate e inserite nel circuito euro-atlantico. Gli Stati Uniti, in virtù dell’intuizione di Kissinger nel 1971 circa il ruolo che la Cina poteva svolgere mondialmente nel settore economico, avevano sperato di trovare in Pechino una sponda per i propri interessi strategici. Ugualmente la Russia divenuta dolo l’89 una potenza regionale che aveva abbracciato il mercato e abbandonato le ideologie passate poteva essere nelle aspirazioni di Washington un partner incline a assecondare strategicamente “l’egemone benevolo” e a essere il fornitore di materie prime. 

La globalizzazione ha avuto conseguenze inaspettate in quanto ha redistribuito il potere economico a vantaggio delle potenze del surplus: Germania, Russia, Cina principalmente. I costi dal punto di vista politico sono stati il disallineamento tedesco e la graduale rivalità geostrategica con Russia e Cina.

La Germania ha accumulato  potere economico in Europa fondato sulle relazioni con la fonte di materie prime , Mosca, in grado di fornire il gas a basso prezzo sin dagli anni 80 e con Pechino importante mercato di sbocco per il sistema economico di Berlino orientato alle esportazioni. Il motore dell’economia europea ha man mano preso le distanze dai neoconservatori americani. Irak, Libia, ingresso Ucraina nella NATO, sanzioni a Mosca, sono state politiche avversate dalla Germania, per quanto e fino a quando la dialettica nella NATO lo ha permesso.

Mosca  dopo la caduta del muro di Berlino era stata messa in ginocchio dalle riforme neo-liberiste e aveva vissuto un periodo di subalternità nei confronti di Washington. Con l’inversione di tendenza realizzata da Putin e col crescere dello sviluppo economico, dopo aver accettato a malincuore la riduzione della sua potenza e l’espansionismo della NATO, ricomincia a rialzare la testa e a stabilire linee rosse. Il nuovo assertivismo russo diviene evidente nel discorso di Putin a Monaco alla Conferenza sulla Sicurezza Europea nel 2007. Ad avviso delle élite a  Washington, il perdente della guerra fredda non ha compreso  di dover rispettare le nuove gerarchie del capitale globale e di dover integrarsi nell’universo euroatlantico pagando il prezzo che compete ai subalterni. Gradualmente matura la convinzione al dipartimento di Stato che è arrivato il momento di una punizione esemplare di Mosca che porterà benefici collaterali quali il vassallaggio dell’Europa e la definitiva rottura della speciale relazione russo-tedesca , resa palpabile dal sabotaggio statunitense dei gasdotti.

La globalizzazione permette, infine, alla Cina di uscire dalla povertà e affermare l’espansionismo economico nel mondo. Gli investimenti in Africa concorrono con quelli occidentali, la via della seta è un progetto ambizioso e egemone sulle vie del commercio e sui porti mal digerito da Washington. Molti analisti concordano sull’inevitabile sorpasso economico cinese nel 2050 degli Stati Uniti. La decisone di imbrigliare Pechino è inevitabile . Gli interessi politico strategici, in pieno contrasto con le teorie liberali e liberiste, devono prevalere sulle tendenze economiche. È la decisone politica che deve  stabilire se si ha libero accesso al gas in Russia o ai semiconduttori di Taiwan. Inevitabilmente la tensione da economica diviene geostrategica. La Cina, già potenza nucleare, aumenta le spese militari, la sua potente flotta reagisce alla strategia del “containment” portata avanti da Washington con alleanze e dimostrazioni di forza militare nel pacifico.

L’epidemia del covid viene incontro ai desiderata statunitensi e oggi la crescita di Pechino rallenta accompagnata da un’insolita crisi dell’immobiliare e dalla straordinaria disoccupazione giovanile.

Il “piano B” occidentale è tuttavia pronto: protezionismo strategico, ripiegamento e concentrazione sugli scambi e investimenti con gli alleati ( “dagli off shore ai friends shore” Jellen dixit) al fine di costruire un mondo più casalingo e amico.

Washington non ha intenzione di deporre lo scettro. Decide quindi di contare sull’unico fattore sul quale può basare una indiscussa supremazia: quello militare. La destabilizzazione della regione orientale dell’Europa e il contributo all’escalation in Medio Oriente rispondono alla stessa logica dalla quale oramai gli interessi degli Stati Uniti sono protetti. Si ragiona sul breve periodo in un autoinganno di natura elettoralistico.

Di fatto il mondo cambia , lentamente ma inesorabilmente. Il ventennio unipolare lascia il posto al multipolarismo. L’alleanza tra emergenti e sud globale si presenta come freno alle ambizioni della “potenza eccezionale” che ancora si muove come gendarme del mondo, sostenuta e assecondata dall’Europa priva di soggettività politica.

Le sfide militari, accompagnate dalla retorica militarista e dal nuovo nazionalismo declinato come appartenenza al mondo dei migliori, imperversano. La riforma delle Nazioni Unite e della governance economica al fine di fornire una risposta razionale alle sfide globali, langue. La mediazione potrebbe trasformare l’ONU in una Organizzazione maggiormente inclusiva , in grado di rispecchiare i nuovi equilibri delineatisi tra le maggiori potenze, ormai distanti da quelli sorti nell’immediato dopoguerra. Gli Stati Uniti non se ne fanno carico, sembrano anzi osteggiarla. 

Ugualmente il sistema di Bretton Woods andrebbe riformato aprendo alla rappresentanza nel FMI e Banca Mondiale delle potenze emergenti. Al Dollaro andrebbe man mano sostituito  da un paniere delle maggiori monete , proposto da tempo dalla Cina.

Gli imperi tuttavia resistono come la storia insegna. Nelle epoche di transizione i rischi sono maggiori, distruzione e lutti avanzano mentre la legge del più forte si afferma.


* Elena Basile entra nella carriera diplomatica nel 1985 e ne percorre tutte le tappe divenendo una delle poche donne che raggiunge i gradi apicali. Ambasciatrice di Italia in Svezia e in Belgio per otto anni consecutivi. Ha scritto 5 libri di narrativa ed é commentatrice freelance sul Fatto quotidiano e su riviste di politica internazionale.

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