Lo stato penale di polizia. A vent’anni dal G8 di Genova

Italo Di Sabato*

Sono passati vent’anni dal G8 di Genova, e abbiamo il dovere di chiederci in che modo il nostro paese, le sue istituzioni abbiano elaborato quanto avvenuto, quale sia stata la risposta democratica agli orrori di quei giorni. È una domanda retorica, perché conosciamo la risposta: non vi è stata risposta, perché è mancata un’elaborazione. Nel frattempo, tutto è cambiato sotto i nostri occhi.

Il 2001 è un anno di svolta. Nell’arco di pochi mesi, con Genova come baricentro, abbiamo avuto le violenze contro i manifestanti al forum sulla “democrazia elettronica” a Napoli (marzo) e l’emergenza terrorismo esplosa dopo gli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono negli Stati Uniti (settembre). Si sono improvvisamente saldati due diversi obiettivi.

Il primo era fare terreno bruciato attorno a un movimento globale in grande espansione, quasi sconosciuto alle forze politiche tradizionali, e che poteva fare di Genova il suo definitivo trampolino di lancio. Il secondo obiettivo sommava l’esigenza di rispondere agli attacchi terroristici alla volontà di “blindare” i sistemi democratici europei attorno alla leadership economica e militare degli Stati Uniti. L’effetto generale è stato una capillare restrizione delle libertà civili, una militarizzazione delle società europee sul modello di quella nordamericana, un indebolimento delle garanzie individuali, un incremento dei poteri di controllo e di repressione affidati alle forze di polizia; in parallelo si sono moltiplicate le missioni militari all’estero. Gli Stati Uniti con il Patriot Act – un pacchetto di pesantissime misure anti- terrorismo, con ampie limitazioni della privacy e delle libertà civili – hanno rapidamente fatto scuola e negli ordinamenti giudiziari di molti paesi sono state inserite misure d’emergenza che hanno progressivamente snaturato i fondamenti democratici delle rispettive Costituzioni.

Una governance penale contro il dissenso

Genova è, nelle politiche di ordine pubblico e nella repressione penale, uno spartiacque. Dal 2001 in poi, la repressione rivolta ai movimenti sociali e contro coloro che vengono etichettati come “nemici” ha visto una forte accelerazione.L’impatto emotivo e giudiziario seguito ha dato vita a numeri da capogiro, una sfilza di nuovi reati prodromici al blocco totale circa la possi- bilità di contestazione dello status quo. L’espul- sione del conflitto sociale dalla scena pubblica è stata una delle costanti della politica di tutti i governi che si sono succeduti. Le lotte sociali sono state ridotte sempre più spesso a mera que- stione di ordine pubblico. Cittadini e attivisti che lottano contro le grandi opere, le basi mili- tari, contro il precariato e per il diritto all’abita- re hanno dovuto fare i conti con pestaggi, de- nunce e schedature di massa. Un “dispositivo” di governo che è stato portato all’estremo con l’occupazione militare della Val di Susa. Una delle conseguenze di questa gestione dell’ordi- ne pubblico, applicato non solo alle lotte sociali ma anche ai comportamenti devianti, è il so- vraffollamento delle carceri, additate dalla co- munità internazionale come luoghi di afflizione dove i detenuti vivono privi delle più elementa- ri garanzie civili e umane. A esse si affiancano i Cpr, dove sono recluse persone private della libertà e di ogni diritto solo perché senza lavoro o permesso di permanenza in quanto migranti.

Il diritto penale del nemico

Le lotte sociali, quindi; si sono dovuti confrontare con un livello altissimo di violenza istituzionale, di cui la criminalizzazione penale è un aspetto rilevante. La creazione di corsie preferenziale per i procedimenti contro attiviste e attivisti, con il coinvolgimento di centinaia di imputati, l’esercizio dell’azione penale anche per reati “bagatellari”, l’abuso delle misure cautelari, l’utilizzo a piene mani del concorso e delle aggravanti, la particolare velocità dei processi, la sproporzione delle condanne e delle sanzioni economiche, sono da anni parte dell’esperienza concreta dei militanti. Si pensi ai variegati movimenti che in questi anni sono nati e cresciuti attorno a tematiche connesse alla tutela dei diritti dei migranti, alle vertenze dei lavoratori del settore della logistica, o alla lotta contro lo sfruttamento del territorio, che accanto alla forza comunicativa data dalla partecipazione di una vasta fascia di cittadini, hanno posto in essere azioni dimostrative di resistenza attiva. 

In una logica di semplificazione mediatica si è realizzata una vera e propria criminalizzazione di tali movimenti. Da un lato, attraverso un costante sovradimensionamento sul piano penale della effettiva portata delle loro azioni. Dall’altro, con l’accostamento alle “frange estreme”, che nel linguaggio giornalistico assumono ora il nome di “anarco-insurrezionalisti”, ora quello, ancora più d’effetto, di “Black Bloc”. È inevitabile che l’effetto ricercato dell’amplificazione dell’immagine “brutta, sporca e cattiva” di questi ultimi sia quello di massificare il giudizio negativo rispetto alla globalità del fenomeno allo scopo di sminuire, ma anche delegittimare, le ragioni politiche che accompagnano i movimenti, con l’obiettivo di esasperare il clima nazionale sollecitando una risposta di “legge e ordine”, ricorrendo frequentemente al refrain dello “stato di emergenza” che autorizzi e legittimi tale risposta.

Sui giornali, in Tv e sui social domina la narrazione della guerra (guerra al Covid-19, al terrorismo, alla criminalità, al clandestino…). L’ideologia della guerra si fonda sulla contrapposizione amico/nemico e cosi qualsiasi dissenso, manifestazione sono narrate nei termini del nemico da eliminare. Alla costruzione del nemico consegue sul piano giuridico un vero e proprio “diritto penale del nemico” dove non si punisce per un eventuale reato compiuto ma bensì a una ipotetica pericolosità in base all’appartenenza politica e sociale.

Dallo Stato sociale allo Stato Penale

Il declino del welfare ha allargato le maglie del linguaggio della colpa e della pena, ha esteso l’uso delle istituzioni penitenziarie e del controllo sociale coattivo, come a compensare la fragilità dello stato sociale. Anno dopo anno, abbiamo assistito quasi inermi e lobotomizzati, alla frantumazione della nostra Costituzione e, di conseguenza, al rapido declino di quel poco che resta della nostra sempre più malata democrazia.

Il ventennio di politiche liberiste e di austerità, portate avanti dai governi di centro-sinistra e centrodestra e dai governi tecnici, ha creato uno spaventoso vuoto che ha inghiottito ogni possibilità e credibilità di una democrazia progressista; in tale buco nero, si è inserito il populismo sciacallo e xenofobo della Lega nazionalista e il populismo ondivago e qualunquista del M5S. La gestione repressiva dell’insicurezza e della marginalità sociale è diventata, quindi, l’altra faccia della medaglia delle politiche neoliberiste. Un processo che negli anni ha chiuso gli spazi di mediazione decretando di fatto il passaggio dallo stato sociale allo stato penale. La mediazione sociale si nutre, infatti, di spesa pubblica, è incarnata da investimenti pubblici e istituti di welfare (pensioni, sanità, istruzione, edilizia popolare, strumenti di supporto al reddito, ecc), che danno concretezza all’esigibilità di diritti. Tagliare la spesa pubblica vuol dire esplicitamente tagliare i margini di mediazione sociale, aumentare le disuguaglianze, condannare larghe fasce di popolazione a restar per sempre fuori dal cerchio del (relativo) benessere.

Il “meno Stato” sociale, il minor interventismo economico richiede “più Stato” poliziesco e penale, le politiche repressive appaiono come il pendant, in materia di “giustizia”, di quelle liberiste in campo economico. L’Italia è oggi il paese europeo che in proporzione spende di più per la sicurezza pubblica e privata, negli ultimo 10 anni i 2/3 dei tagli alla spesa sociosanitaria sono stati destinati alle spese per la “sicurezza” e per la repressione. Se questo è lo Stato oggi, la penalità resta l’ultima frontiera di sovranità. Il potere di punire è quel che resta della sovranità. E cosi difronte al dissenso cerca di salvare se stesso criminalizzando il conflitto sociale e incarcerando sovversivi e marginali.

Per un movimento antipenale

La democrazia coniugata nella sua forma giudiziaria ha favorito e accelerato la svolta a destra della società italiana. Per questo il rilancio dell’azione politica alternativa e della critica sociale non può che passare per il rifiuto totale di ogni subalternità verso concezioni penali della politica, unico modo per liberare la società dagli effetti stupefacenti dell’oppio giudiziario. Se vogliamo cominciare a capovolgere questa situazione è arrivato il momento di mettere in campo un movimento anti penale.

Non ci potrà mai essere critica all’attuale società capitalista, che possa aver successo, senza una contemporanea messa in discussione dell’apparato penale che lo sostiene.

Il dopo pandemia tende a condurre a una situazione peggiore di quella precedente, occorre, quindi, uno sguardo scettico/critico per capire l’attuale congiuntura e per organizzarci a resistere e contrattaccare.

Forse, dovremmo ripensare Genova 2001 guardando a quello che succede negli Stati Uniti e in Francia, imparando la lezione di questi anni, sperando di poter dire con serietà, senza velleitarismi, che anche qui in Italia e possibile ricostruire convergenze fra le molteplici ragioni delle singole resistenze con una forte critica al panpenalismo.


* Italo Di Sabato è coordinatore dell’Osservatorio Repressione, associazione di promozione sociale che promuovere e coordina studi e ricerche sui temi della repressione, della legislazione speciale, della situazione carceraria e la pubblicazione di materia- li ed esiti delle proprie ricerche. È stato dal 1995 al 2006 consigliere regionale in Molise per il Prc.


Immagine in apertura da pixabay.com

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