Lottare contro il freddo, per il sole dell’avvenire
Dimitrij Palagi*
È sempre esistita una sinistra ribelle, per cui la liberazione collettiva è inscindibile da quella individuale, contraria all’elogio di qualsiasi istituzione totale. Tentare di cancellarla, riducendo il comunismo a un’immagine in bianco e nero, oppressiva e repressiva, è una costante di chi teme il senso del 7 ottobre 1917, come momento di liberazione dalla barbarie.
Valerio Evangelisti nel 1996 ha scritto di come il nostro avversario sia il freddo, inteso come il nulla in cui temiamo possa essere risucchiato il futuro che ci aspetta. Era una fase storica molto diversa da quella attuale. Decolonizzare l’immaginario voleva dire contrastare la propaganda con cui si sosteneva la fine della storia, dopo la caduta del Muro di Berlino. In Italia c’era da rispondere all’anticomunismo con cui Berlusconi aveva sdoganato l’estrema destra al governo. C’era spazio per l’altermondialismo: si delineavano le regole del villaggio globale e si discuteva di come il “nuovo” ordine poteva garantire progresso. Una sorta di sfida a sinistra, tra la terza via post-socialdemocratica e le istanze più radicali. Si denunciavano spettri e ombre tra le promesse della globalizzazione. Oggi la fase è diversa. Non si promette nessun domani. Dobbiamo costruire su macerie e tornare a far conoscere il calore del sole dell’avvenire, perché se illumina ovunque lo si riesce a immaginare, stanno togliendo la possibilità di immaginarlo.
Nei decenni della nostra storia, non abbiamo ancora sviluppato il compito della Rifondazione, che oggi è però ancora più necessario. Il capitalismo ha prodotto sul piano antropologico un contesto in cui le nuove generazioni conoscono le ingiustizie dell’attuale modello di sviluppo, ma in un contesto dove si nega ogni idea di alternativa. Ci si può salvare dal disastro che ci attende? Senza la politica non resta che la sopravvivenza individuale, o del proprio piccolo nucleo di appartenenza.
La paura nel Partito
La discussione nel PRC è incancrenita. Ogni volta che si tenta di affrontare un nodo, una critica, arriva la paura della spaccatura. Per un soggetto che guarda all’idea di rivoluzione, questa è una sconfitta. I conflitti devono esprimersi, per poter trovare sintesi in positivo: vale per la società, vale per noi. All’ultimo congresso abbiamo tentato la strada unitaria, ma le voci dissonanti sono state spesso ridicolizzate, o ignorate, o ricondotte a questioni personali, mentre non ci si prendeva cura del noi. In una situazione di debolezza si può restare fermi, sperando che nessuna scossa sia fatale, o tentare di liberarsi dall’angolo. Chi parla di guerra aperta contro il segretario ha scelto una strada facile ma pericolosa. Si descrive un nemico interno, che sarebbe in combutta con un nemico esterno (PAP). Sembra quasi che la ragione di legittimazione di una parte di gruppo dirigente sia emanciparsi dall’ombra di Paolo Ferrero. Per fortuna ci sono invece punti politici di reale divergenza tra i documenti che verranno discussi.
Negli ultimi anni i congressi hanno determinato disorientamento e timori. Nei Circoli si teme che si stia per consumare una resa dei conti tra i gruppi dirigenti. Talvolta con fatica si rinnova la tessera, spesso con piacere si condivide la militanza in una festa, ma non è scontato ritenere utile il cimentarsi nella lettura di oltre 100 pagine, soprattutto se sembrano concordare su dei punti.
Invece delle differenze ci sono. A partire da una lettura dell’immediato passato, dopo il 2008. È chiaro che oggi il Partito è più debole di 16 anni fa. Si può pensare che sia stata colpa del destino cinico e baro, o riconoscere l’estrema difficoltà di affermare le ragioni dell’alternativa in un’epoca di realismo capitalista, dove si toglie ossigeno a ogni conflitto, tentando di disciplinare ogni momento della nostra vita. Il nostro Partito non è stato all’altezza delle sfide che ha dovuto affrontare. Negli ultimi anni, inoltre, la linea politica non sempre ha visto una pratica conseguente, rischiando di ridursi a una declamazione di intenti, buona solo a tentare di definire un perimetro in cui sopravvivere, con sempre maggior fatica. Si è fatto della collocazione elettorale un elemento di identità, mentre sui territori si cercava di sopravvivere come si poteva.
È interessante l’accusa di ottusità che viene rivolta a chi continua a pensare sia necessario mantenere una linea politica di alternativa. Perché rimuove le tante realtà che in 18 anni di militanza sono fuoriuscite “da sinistra”, accusandoci di non essere coerenti con quanto avevamo stabilito. Alcuni di questi percorsi sono diventati un riferimento importante nella società, a partire dalla lotta del Collettivo di Fabbrica ex GKN.
fuori dal bipolarismo
Tra le trappole preparate nel nuovo millennio c’è quella di aver ricondotto il tema del potere esclusivamente a quello del governo. Se la società non esiste c’è una vita quotidiana individuale, condivisa con qualche parente e persona amica, mentre a distanza va in scena lo spettacolo della politica, dove i partiti sfumano sullo sfondo a favore di chi recita ruoli che si consumano a ritmo serrato. La progettualità non trova spazio, perché non c’è domanda. Non si sente il bisogno della politica. A chi la “fa” invece le elezioni in ogni caso servono, per attestare la propria esistenza, o per questioni più materiali, che vengono affrontate con difficoltà (come la sostenibilità economica in relazione all’attività politica). Alessandro Portelli ha scritto sul Signore degli Anelli del problema dell’anello. È lecito usare lo strumento di dominio di chi si avversa? In modo più aulico la filosofia politica discute da secoli di fini e mezzi.
Il tema dei cambiamenti climatici è quello che forse più rinnova la sfida. Di fronte all’urgenza di salvare il pianeta dalle devastazioni, c’è chi teorizza la necessità di andare al governo con chi è co-responsabile dell’attuale modello di sviluppo, per poter agire contro i negazionisti. È anche una conseguenza dell’incapacità di affrontare in modo convincente il tema dei rapporti di forza nella società. La rottura è un tabù, ricondotto alla dimensione di una rivolta violenta e confusa, incapace di farsi progettualità. Rinunciare all’idea di rivoluzione e pensare che il comunismo sia una corrente culturale compatibile con il centrosinistra è un modo per cancellare le ragioni dell’esistenza del PRC.
Con la vittoria di Trump è ipotizzabile un nuovo bipolarismo tossico, a livello di continente. Da una parte le destre, felici di immaginare un’alleanza tra paesi occidentali rinchiusi in identità difensive, dove anche la richiesta di concorrere con maggiori soldi alle spese della NATO viene vista come maggiore autonomia sovranista nel patto atlantico. Dall’altra una galassia pronta a ridurre il Manifesto di Ventotene (che non è quello di Marx nel 1848) alle logiche con cui PSE e PPE hanno disegnato l’UE. Da una parte la cancellazione di qualsiasi minimo obiettivo di riduzione dell’inquinamento, dall’altra un New Green Deal interno alle logiche del capitalismo.
Non son poche le persone e le realtà che ci accusano di aver dato l’idea di cercare zattere con cui salvarci, vedendo nella presenza istituzionale e nel 2 per mille l’obiettivo prioritario, rispetto al radicamento nella società, sempre più difficile, ma non per questo meno necessario. A quel punto perché non votare centrosinistra?
Una comunità aperta, non un brand
Collocarsi in modo alternativo rispetto al PD non è sufficiente, ma è necessario. È comprensibile che ci sia chi pensa di risolvere la crisi di Rifondazione con torsioni organizzative, gestendo la comunicazione come se il simbolo fosse un brand e arrivando a disciplinare i comportamenti delle compagne e dei compagni sui social (che è cosa diversa dal costruire pratiche comuni, non solo dall’alto verso il basso). La spregiudicatezza tattica è praticabile solo quanto c’è una consolidata stabilità strategica, quando esiste un noi in cui non c’è ragione di diffidare delle decisioni prese, anche laddove non si concordi con la sintesi presa dalla maggioranza del Partito. Attribuire la responsabilità della fuoriuscita dagli enti locali e dalle regioni alla linea politica è esplicativo. Un modo di deresponsabilizzare il gruppo dirigente nazionale e soffiare sulla paura del nulla che può attenderci.
Non esistono modelli, ma nella Federazione di Firenze l’applicazione della linea dell’alternativa ha determinato esiti diversi anche a pochi chilometri di distanza tra loro. Chi pensa che sia solo merito di una consolidata tradizione fraintende la situazione di debolezza che segna il Partito anche sul nostro territorio. In alcuni comuni governiamo in alleanza con il M5S, in altri con aree di centrosinistra fuoriuscite per ragioni locali. In tutti ci interroghiamo sul fatto che l’appartenenza a un’organizzazione sia vissuta come un ostacolo, non come un punto di forza.
Le prossime elezioni nazionali sono previste nel settembre del 2027, a ridosso di un nuovo congresso. Dire che oggi all’ordine del giorno non c’è l’ipotesi di un’alleanza con il PD ma che la linea politica va aggiornata, è un modo per aprire a una prospettiva dicibile, ma incompatibile con le ragioni del PRC. Il campo largo non è il nostro spazio. Aggiungiamo: non lo è neppure il “campo giusto”, o il “campo progressista”. Ecco un’altra ipotesi incompatibile con noi: PD a guida Schlein, M5S con posizioni progressiste e AVS. L’obiettivo non deve essere favorire un centrosinistra “più a sinistra”, ma costruire uno spazio che renda plausibile anche per AVS e M5S la convergenza in un progetto di alternativa, per la pace, l’ambiente e la giustizia sociale. Uno spazio che oggi non c’è, se non in qualche territorio, ma che è nostro compito costruire. Partendo da una comunità capace di parlare a chi ha bisogno del sole dell’avvenire, a chi nella politica non crede più e sceglie l’astensionismo, o il voto “contro”, per chiedere un voto “per”, effettivamente utile.
*36 anni, docente precario nei CFP, consigliere comunale a Firenze e componente della segreteria nazionale PRC.