Mediattivismo e militanza

Giada Funghi*, Lorenzo Sodero**

Dalla nascita di Facebook a oggi sono passati quasi venti anni e il mondo ha subito trasformazioni repentine che hanno rivoluzionato il modo in cui le persone si mettono in relazione con le altre, ma anche con loro stesse. Prima che internet fosse presente nelle case, la socializzazione e l’informazione avvenivano attraverso altri media, come la televisione e in modo più diffuso tramite radio e giornali, ma anche all’interno di comunità fisiche dove si costruiva lo spazio del confronto politico. 

Questo spazio trovava radici nelle relazioni dirette, dove venivano messe in continua discussione le proprie posizioni a confronto con quelle degli altri, e il campo in cui si agiva prevedeva anche lo scontro tra piano individuale e collettivo di ogni partecipante. A oggi questo spazio è ancora presente ma viene visto dall’esterno come chiuso, elitario, mentre il nuovo “campo di conquista”  sono i nuovi media: non tanto internet di per sé, quanto sono i social ad attirare e dominare le relazioni e le informazioni tra le nuove generazioni.

Per ogni aspetto della socializzazione è prevista un’applicazione, ogni social media ha funzionalità e caratteristiche differenti (testuali come Facebook, visivi come Instagram) sostituendosi a ogni tipo di relazione interpersonale, anche a scopo sessuale. Il ruolo dei social media è proprio quello di creare piattaforme diverse a cui corrispondono standard comunicativi il più possibile accessibili, appiattendo di fatto la comunicazione su poche ed essenziali opzioni. La semplificazione si riflette ovviamente in primis sulla fruibilità dei contenuti: pensati per essere il più possibile diretti, veloci e incisivi, cioè efficienti, si arriva a farne beni di consumo sempre disponibili. 

Bolle tematiche e polarizzazione

In questo contesto si distinguono determinate figure impegnate sul fronte del mediattivismo: persone che di propria iniziativa mettono a disposizione conoscenze e punti di vista per chiunque voglia prenderle in considerazione. Ogni mediattivista ha la propria tematica e relativa bolla di ascolto. Le bolle sono tali perché al loro interno rimbombano sempre le solite idee e opinioni, riducendo ai minimi termini la capacità di interazione con altre bolle, altre tematiche. 

La polarizzazione domina la discussione interna, poiché si preferisce di fatto confermare la propria visione piuttosto che avere un approccio critico-conflittuale, capace di fornire un metodo d’interpretazione della realtà in grado di ordinare e collegare bisogni e tematiche.

Il modello attraverso cui vengono presentate e sviscerate le tematiche consiste nel far vedere le singole sfaccettature del singolo tema, apportando una moltitudine di contributi e informazioni che possono sì arricchire la discussione, rimanendo però sempre all’interno della propria bolla. 

Non necessariamente questo deve essere considerato in senso negativo: poiché molte delle tematiche non sono al centro del dibattito pubblico; è positiva l’esistenza di informazioni e comunità accessibili. A un occhio attento, o perlomeno abituato, non sfugge però che spesso, se non sempre, le questioni non vengano trattate nel merito di un approccio politico. Può essere presente un approccio teorico, culturale e sociale, di denuncia e di commento, ma difficilmente sarà presente un dibattito politicizzato e propositivo. Si assiste così alla formazione di comunità trasversali, eclettiche magari nei ruoli ma fortemente indirizzate, che forniscono contenuti ma soprattutto prodotti (come, per esempio, libri e corsi).

In questo modo l’attivismo può trasformarsi in libera professione, dove le capacità di vendere si sostituiscono ad altre competenze tecniche, mentre le e gli influencer colonizzano anche il mondo dell’impegno civile e sociale.

Sherry Turkle è una sociologa, psicologa e tecnologa statunitense che in modo convincente ha provato a spiegare il successo dei nuovi social media. Specie in questo periodo pandemico, vissuto soprattutto dalla fascia giovane della popolazione come alienante e di isolamento, si afferma sempre di più la comunicazione attraverso questi mezzi, che semplificano e rendono più accessibili i rapporti umani. Facendo leva anche sul bisogno di conforto generazionale, si trovano comunità che espongono problematiche sociali e culturali, senza un approccio politico che, tenendo conto delle varie criticità, proponga una soluzione organica e partecipata nella realtà delle cose, come invece ci si propone di fare con l’iscrizione a un partito.

Attivismo individuale e militanza collettiva

Siamo cresciute e cresciuti con i residui delle narrazioni della militanza nelle organizzazioni di massa del Novecento: intere esistenze dedicate a una dimensione collettiva, segnata da riunioni, volantinaggi, manifestazioni, diffusione di materiale, attività nelle case del popolo, dibattiti, feste, e dall’impegno nelle associazioni più varie (dalla solidarietà internazionale allo sport). A venire meno è la possibilità stessa di far parte di qualcosa che ambisca a trasformare complessivamente la società. La politica non ci riguarda, o fa parte del problema, perché incapace di adeguarsi al presente e dare risposte alle questioni che si vivono (dalla sessualità al benessere mentale, passando per la continua sensazione di un tempo privato di senso).

Il filosofo Ernesto Laclau ha parlato della nascita di “domande democratiche” in seguito alla delusione vissuta nel non vedere riconosciute le proprie esigenze da parte dell’assetto istituzionale: l’unirsi di più domande democratiche forma una “catena equivalenziale”, tanti anelli uniti tra loro da una cosa: il non aver trovato risoluzione nel circuito politico. Il punto centrale, sostiene Laclau, è la vacuità con cui si presenta questa catena nel suo insieme, senza richiedere alcuno sforzo ideologico o comunque nessun ragionamento complesso da parte delle singole domande democratiche sul sistema sociale ed economico. Gli elementi si aggiungono, il totale è una somma, non una sintesi.

In questo contesto sociale, l’attivismo sui social è una risposta apparentemente efficace per i bisogni. Le persone si attivano quasi solo sui singoli argomenti (su singole domande democratiche) che interessano loro o che comunque le vedono particolarmente coinvolte. I nuovi mezzi abbattono le barriere di accesso, in apparenza: chiunque può ascoltare e leggere, chiunque può registrare video e scrivere. Chiunque abbia le competenze digitali (native per ormai intere generazioni) e successo comunicativo: all’interno delle regole dettate dalle proprietà delle piattaforme, si intende. Provate a parlare di Kurdistan su Facebook e sperimenterete la censura senza appello legata all’interpretazione del PKK come organizzazione terroristica voluta dal governo della Turchia.

Il mediattivismo, utilizzando i nuovi media, sperimenta, elabora, produce informazioni, coinvolgendo, potenzialmente, tutte le persone interessate al tema a cui fa riferimento. Maggiori sono le visualizzazioni dei propri prodotti mediali, maggiori sono le possibilità di ricevere sponsorizzazioni, creando così un circolo vizioso. L’obiettivo diventa quindi ottenere visibilità in un contesto estremamente concorrenziale. Il successo del mediattivismo si misura nella capacità di modellare i propri contenuti per un determinato pubblico. 

Si nota così come ci sia una chiara impostazione commerciale, non solo per la presenza di sponsor, bensì anche per l’individuazione di un pubblico o target a cui presentare la propria produzione, quasi fosse una rivisitazione del cosiddetto circuito di rappresentanza, che si lega ad un partito o figura politica.

Uno spunto per la riflessione interna

Il mediattivismo di successo può rappresentare una buona occasione di riflessione per i partiti e i movimenti perché raffigura un rapporto diretto con alcune parti della popolazione, che si attivano su un aspetto del vivere in società: non si tratta solo di consenso elettorale, ma di riuscire a legarsi con chi ritiene prioritaria la specifica tematica, anche perché è venuta meno l’idea stessa di visione complessiva del mondo come necessità per avere un’opinione politica. “Non mi interessa essere di destra o di sinistra, perché non credo che nessuna parte abbia realmente a cuore il tema di cui mi sto interessando”. Il sistema politico in realtà alimenta questo tipo di comunicazione: la mobilitazione per il DDL Zan è stata un evento mediatico, cavalcato anche da figure con ruoli diretti in Parlamento, che però alla fine si è consumata senza ottenere un risultato effettivo, alimentando i pregiudizi sull’inutilità della politica.

Come sviluppato dal sociologo Goffmann nel suo modello drammaturgico, ogni individuo si impegna nella creazione di una percezione pubblica di sé, conforme ai propri desideri, cercando di convincere il proprio pubblico perché accetti come reali le autorappresentazioni che gli vengono offerte. Questo è anche il lavoro richiesto dal mediattivismo che, indipendentemente dalla tematica, ricalca molto lo schema richiesto a un’attrice o un attore. Non ci sono organizzazioni con cui esprimere le proprie posizioni: c’è un ruolo, da sviluppare sui social e da cui non si può mai uscire. La bolla si nutre di queste performance e alimenta una zona di conforto, in cui poter trovare qualche appiglio di conferma per le proprie idee.

Il mediattivismo non può sostituire la militanza, ma quest’ultima dovrebbe interrogarsi efficacemente sul perché sia vissuta come risposta meno efficace di un profilo Instagram: non basta “sbarcare” nelle nuove piattaforme e tradurre i linguaggi. Le trasformazioni necessarie richiedono mutamenti più radicali e non unilaterali: per essere in sintonia con delle necessità vissute come nuove non basta rivendicare la superiorità degli approcci più complessi e complessivi. Delegare a chi non ha mai fatto politica, significherebbe a rivolgersi a chi pensa che la politica sarebbe comunque una risposta sbagliata. D’altro canto, inseguire i mutamenti del mercato per trasformarsi in prodotti, affidandosi a qualche figura di mediattivismo già affermata, o pagando persone esperte per adattare i messaggi, significherebbe affidarsi a palliativi.

Nella politica che abbiamo conosciuto in questi anni, le ore da dedicare alle riunioni si moltiplicano con grande facilità, il tempo trascorre senza che sia chiarissimo del perché lo si stia passando in un determinato modo, e tante pratiche non corrispondono al bisogno di “produrre contenuti”. Guardare un video sui gattini non è sicuramente più costruttivo di un attivo, ma rischia di essere vissuto come più soddisfacente. Il mediattivismo è chiaramente percepito come più utile, sincero ed efficace, rispetto a pratiche più tradizionali: si sviluppa come pratica nativa in sistemi di comunicazione chiusi ma pervasivi, sostituendosi in molti casi con la politica. Fare una diretta è diverso dal mettersi davanti a una telecamera e parlare come se si fosse in presenza.

I mezzi determinano in parte le regole da seguire, influenzando i contenuti e non solo i modi con cui questi vengono comunicati. Da quanto ci raccontano i libri e le testimonianze di chi c’era, nel Novecento non è mancata la capacità delle organizzazioni comuniste di inserirsi nei nuovi canali che nascevano. Possono nascere nuove figure militanti, se si smette di approcciarsi alle nuove generazioni e ai mezzi sconosciuti con eccessi di paternalismo e ingenuità. Stanno nascendo di fatto nuovi mondi, accettare di attraversarli e mettersi in discussione attraverso il confronto è una necessità urgente. Sapendo anche riconoscere dignità a ciò che magari non immediatamente è compreso e sollecitando a riconoscere i bisogni politici che non si esprimono direttamente come tali, partendo dai problemi su cui il mercato sviluppa nuovi prodotti, basati unicamente sulle logiche di profitto.


* Giada Funghi GC, transfemminista e laureata in chimica, interessata al mondo della tecnologia e a come le persone vi si rapportano.

* Lorenzo Sodero classe 1996, laureato in Scienze della Comunicazione, Giovane Comunista e militante attento alle “nuove” forme di partecipazione politica, anche rispetto al loro impatto sulle istituzioni politiche, oggetto anche del percorso di studio.


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