Negli Stati Uniti il free speech non regge alla prova del massacro di Gaza

Elisabetta Grande*

As students, our message is clear: we will not allow our tuition dollars to carry out the genocide of Palestinian people.” “Disclose, divest, we will not stop, we will not rest”. [1]

Il free speech e il limite della realpolitik

Mentre il mondo assiste al nuovo olocausto in corso a Gaza, perpetrato da chi a suo tempo ha subìto lo stesso abominevole trattamento, con la complicità oggi di una parte dell’occidente che fornisce armi e ritira fondi alle uniche istituzioni capaci di alleviare la sofferenza di un popolo ormai alla fame e a rischio di epidemie, negli Stati Uniti – il primo Stato complice, per l’importanza dei suoi aiuti allo Stato di Israele- si consuma un attacco al free speech che ricorda i tempi cupi del maccartismo o quelli altrettanto ignominiosi della repressione delle proteste studentesche contro la guerra in Vietnam.

Oggi come ieri negli Usa l’espressione del dissenso trova un limite nella realpolitik, che sola stabilisce cosa si può dire e cosa no, in un sistema che continua però ad autocelebrarsi come massimo paladino dei diritti individuali, fra cui prima di tutto quello di esprimere liberamente il proprio pensiero[2]. Quando infatti, come sta avvenendo ora, in gioco c’è il controllo della -ricca di petrolio- area medio-orientale attraverso l’amico/alleato Stato d’Israele, i princìpi enunciati dalla Corte Suprema federale a tutela del free speech in generale – e nei campus universitari e nelle scuole in particolare – subiscono una battuta di arresto e vengono sostituiti da una politica repressiva dettata dalle superiori esigenze geopolitiche nazionali. Così, non solo la libertà degli studenti universitari di criticare la complicità degli Stati Uniti nel massacro dei Gazawi, di richiedere il disinvestimento dei propri soldi dalle imprese e società che fanno affari con Israele a sostegno del suo comportamento criminale, o di domandare una presa di posizione delle loro istituzioni a favore della Palestina è brutalmente cancellata. Perfino la libertà didattica dei professori delle scuole superiori di discutere in una prospettiva plurale il passato e il presente dei rapporti fra Israele e Palestina è sotto attacco e, come se non bastasse, i giornalisti di una testata importante come il New York Times ricevono istruzioni precise affinché i loro articoli non prendano una posizione antiisraeliana[3].

Dall’8 ottobre 2023 in poi, non è insomma più ammessa alcuna critica nei confronti di Israele; è richiesto invece il pieno e aperto sostegno al suo operato come le audizioni alla camera delle rettrici di Harvard, Penn e Columbia e le conseguenze delle loro risposte “giuste” o “sbagliate” stanno a dimostrare. Da allora, evocando un antisemitismo farlocco, una forbice composta dai finanziatori delle università da un lato e dal corpo politico dall’altro -entrambi sostenitori di Israele nella sua azione di annientamento del popolo palestinese, cui il Congresso ha da poco contribuito elargendo altri 17 miliardi per rimpinguare il suo arsenale bellico- stringe in una morsa di forzata genuflessione al pensiero pro-Israele le Università e ora anche le scuole. 

La violenza nei confronti di chi esprime il proprio pensiero contro Israele ha inizio

Già da subito una violenza inaudita si abbatte su chi -pur negli spazi per eccellenza garanti del free speech, quali le università- esprime un punto di vista critico delle politiche israeliane colonialiste, indicate quali responsabili del famigerato attacco di Hamas.  Ad Harvard la notte dell’attacco di Hamas in Israele – e prima ancora che il numero dei morti e dei rapiti fosse noto- una coalizione formata da 30 gruppi di studenti scrive una lettera, non firmata individualmente, in cui dichiara che “gli eventi odierni non sono venuti dal nulla” e ancora che “negli ultimi due decenni milioni di palestinesi a Gaza sono stati costretti a vivere in una prigione a cielo aperto” ragion per cui “è il regime di apartheid che va condannato” e Israele è quindi “interamente responsabile” dell’accaduto. Nel giro di pochissimi giorni gli studenti affiliati a quei gruppi sono identificati, i loro nomi e le loro informazioni personali messe in rete e persino le loro famiglie vengono contattate e minacciate.  Come se non bastasse un camion sponsorizzato da un gruppo conservatore, Accuracy in Media, comincia a fare il giro del perimetro esterno del campus universitario mostrando i nomi e i volti degli studenti, che vengono così esposti al pubblico ludibrio ed etichettati come i “capi degli antisemiti di Harvard”. Lo stesso gruppo conservatore acquista poi i nomi di dominio di quegli studenti, creando dei corrispondenti siti web in cui viene chiesto che Harvard li sanzioni. Un altro sito web inserisce i loro nomi in una lista dall’eloquente titolo: “College Terror List. Utile guida per datori di lavoro” e quando Google la oscura, altri siti l’hanno già fatta girare. Bill Ackman, uno dei miliardari che, in quanto ex allievo, sostiene finanziariamente Harvard, scrive sui social che i nomi di quegli studenti devono circolare per evitare che qualcuno “inavvertitamente” li assuma! Così i più di 80mila followers del miliardario diffondono la lista e fanno sì che dozzine di chief executives la richiedano e ottengano. Il futuro lavorativo di quei ragazzi – in ragione del quale, iscrivendosi ad Harvard, si sono indebitati per la vita- è in tal modo compromesso per sempre.

Inizia così l’attacco israeliano negli Stati Uniti, fatto non di bombe e di morti come in Palestina, ma di forte repressione di qualsiasi critica alle politiche genocide dello Stato ebraico – non degli ebrei in quanto tali! – equiparata ormai all’espressione di un pensiero antisemita. Si tratta di un’aggressione al free speech portata avanti (per interposta persona) tanto dai donors delle università, quanto dal Congresso statunitense, che insieme impongono una decisa linea censoria nei luoghi del sapere, in pieno contrasto con quanto stabilito dalla Corte Suprema federale con le sue pronunce.

Il free speech nell’interpretazione della Corte Suprema federale fino a ieri

«È un principio consolidato che in base alla nostra Costituzione la pubblica espressione delle idee non possa essere proibita semplicemente perché risulta offensiva per qualcuno» diceva già nel 1969 la SCOTUS[4]. Celebrato nel tempo attraverso le tante decisioni di quel supremo organo giudiziario che hanno imposto il rispetto del dissenso, è soprattutto in ambito scolastico e universitario che il principio del free speech è parso trovare pieno riconoscimento. “Gli insegnanti e gli studenti devono sempre rimanere liberi di indagare, studiare e valutare, per raggiungere una piena maturità e comprensione; altrimenti la nostra civiltà stagnerà e morirà” ha più volte ripetuto la Suprema Corte, imponendo la tolleranza nei confronti degli intolleranti[5]. Tollerare l’intolleranza ha significato permettere a uno studente di sedici anni, subito dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, di disegnare e appendere nella sua scuola di Cleveland, frequen­tata tra l’altro da compagni i cui parenti si trovavano in quel momento in quel Paese, dei poster rappresentanti aeroplani in procinto di bombardare l’Afghanistan, su cui il ragazzo aveva scritto “Possa Dio aver pietà di voi, perché noi non ne avremo”. Oppure accordare tutela costituzionale all’iniziativa di alcuni studenti bianchi di una fraternity universitaria, che organizzano un “ghetto party” per deridere, con tanto di travestimenti e parrucche afro, i loro compagni neri; o che, per prendere in giro le loro compagne “brutte”, danno vita a un “ugly woman contest”, colorandosi fra l’altro la faccia di nero.

Il rispetto per l’espressione della critica e del dissenso che sta alla base di una democrazia liberale, in cui come scrisse nel 1961 Hugo Black “dobbiamo proteggere le idee che detestiamo, altrimenti presto o tar­di ci proibiranno di esprimere quelle che amiamo”[6], ha infatti prodotto decisioni che hanno imposto a tutte le università pubbliche di eliminare i così detti hate speech codes. I regolamenti dei colleges universitari pubblici che, per garantire distensione sociale e protezione alle minoranze, proibiscono e sanzionano le espressioni verbali offensive all’interno dei campus, sono stati giudicati incostituzionali dalle Corti federali tutte le volte che queste ultime sono state investite della questione. Le università (pubbliche) non hanno così per esempio potuto censurare programmi radiofonici studenteschi pieni di battute razziste, o impedire agli studenti di appendere alle finestre dei loro campus una tunica bianca simbolo del Ku Klux Klan, o vietare volantini anonimi che prendevano in giro ca­ricaturizzandoli i neri chiamandoli “labbra grosse”, “musi neri” o “negri” e che dichiarano “aperta la stagione di caccia” ai neri. Quando l’università del Michigan ci provò, cercando di applicare il suo hate speech code contro simili manifestazioni ingiuriose del pensiero, trovò un ostacolo insormontabile nell’interpretazione data da una Corte federale di distretto al primo emendamento della costituzione, che la obbligò a disapplicare in via permanente il suo censorio regolamento interno. 

Se le università pubbliche sono dunque da tempo tenu­te a rispettare il diritto degli studenti al free speech, anche quelle private si sono di regola adeguate al medesimo standard. Entrambe, pertanto – le une perché obbligate, le altre perché hanno creduto nel valore di poter manifestare liberamente il proprio pensiero per quanto ostile e ingiurioso esso sia – hanno finora generalmente consentito ai propri studenti di criticare il potere politico, i suoi simboli, i suoi uomini, le fedi altrui e perfino di esprimere a piacimento apprezzamenti volgari, apertamente razzisti o discriminatori nei confronti dei propri compagni.

L’eccezione palestinese

E’ in questo quadro che appare evidente l’odierna eccezione palestinese al principio di libertà di manifestazione del pensiero, laddove finanziatori e Congresso federale attaccano pesantemente i vertici universitari che non esprimano in maniera chiara la loro vicinanza a Israele, reprimendo efficacemente le proteste studentesche contro l’eccidio in corso in Palestina. Non è, infatti, sufficiente alla rettrice di Harvard, Claudine Gay – accusata da Larry Summers (rettore di quella istituzione dal 2001 al 2006) e dai big donors di aver preso posizione contro Hamas soltanto un giorno dopo l’attacco in Israele – rimediare con due immediate e ferme prese di posizione di condanna (che non trovano invece espressione rispetto all’aggressione di Gaza da parte di Israele). Né è considerato abbastanza filoisraeliano il suo annuncio di indagini sui comportamenti “antisemiti” degli studenti che esprimono il proprio disappunto (non certo nei confronti della religione del popolo ebraico, bensì) delle politiche israeliane, quando a fronte dello sterminio in atto gridano che la Palestina deve essere libera dal fiume al mare. Ritenuta non all’altezza di sopprimere la voce di chi contesta la complicità nel genocidio degli Stati Uniti e della propria istituzione che investe in società che fanno affari con Israele, Claudine Gay vede i finanziatori di Harvard ritirare il loro sostegno alla sua istituzione. Sul punto, fra gli altri, Whitney Tilson, uno degli uomini più influenti nella finanza, nonché laureato presso l’Harvard Business School, è esplicito. Dichiaratosi molto seccato con Harvard per l’atteggiamento troppo permissivo nei confronti dell’antisemitismo secondo lui imperante nel collegio universitario, il 9 novembre 2023 rifiuta di partecipare a un incontro di richiesta di fondi, aggiungendo che non solo non darà che pochi spiccioli, ma che ha inviato email ai suoi più di 10 mila lettori e amici perché facciano altrettanto. D’altronde, qualche settimana prima era stata la coppia di filantropi Idan e Batia Ofer a dimettersi, con motivazioni analoghe, dall’Harvard Kennedy School Dean’s Executive Board e a far venir di conseguenza meno il proprio sostegno economico all’istituzione.

Non va meglio alla rettrice della University of Pennsylvania, Liz Magill, già prima del 7 ottobre 2023 sotto attacco per una conferenza sulla Palestina, che molti big donors non vogliono abbia luogo. La conferenza viene, però, confermata e quando successivamente la Magill condanna – ebbene sì – pubblicamente e fermamente l’attacco di Hamas, ma con un giorno di ritardo, la reazione dei big donors è feroce. Marc Rowan, a capo del gigante del private equity, Apollo Global Management, nonché presidente del Consiglio di amministrazione di Wharton – la Business School dell’università responsabile della gran parte della raccolta fondi per Penn – lancia una campagna per cancellare le donazioni all’istituzione, che a suo parere è eccessivamente tollerante verso l’antisemitismo. Alla campagna di Rowan, che insieme alla moglie ha nel passato donato a Penn 50 milioni l’anno, aderiscono in tanti fra cui per esempio Ronald S. Lauder, il miliardario della cosmesi, oppure Jon Huntsman, l’ex governatore dello Utah, o ancora Dick Wolf, l’inventore della serie Tv Law & Order, oppure Ross Stevens, fondatore dello Stone Ridge Asset Management, che da solo di norma contribuiva al budget di Penn per 100 milioni l’anno. I tanti ex benefattori inviano per protesta un assegno da un dollaro, in luogo dei soliti checks milionari, e certamente segnano il loro punto quando giovedì 9 novembre 2023 la Magill, facendo riferimento ad alcune frasi proiettate su alcuni edifici dell’università dal seguente tenore: “ lasciate vivere Gaza”, “Sionismo significa razzismo”, “ Penn finanzia il genocidio dei palestinesi”, “l’occupazione della Palestina è un crimine”, “10 mila persone sono state assassinate dall’occupazione israeliana dal 7 ottobre”, “From the river to the sea, Palestine will be free“, qualifica quelle frasi come messaggi di odio (hateful messages) e annuncia un’indagine della polizia interna volta a colpire chi ha proiettato “i vili messaggi antisemiti” in questione.

L’attacco alle due rettrici da parte dei big donors non è però abbastanza: occorre farle dimettere per chiarire una volta per tutte che le critiche studentesche contro Israele, ormai bollate inequivocabilmente come “antisemite”, devono essere stroncate alla radice. All’uopo interviene dunque la Camera del Congresso che, nell’ormai famosa audizione condotta dalla repubblicana Elise Stefanik, nuova McCarthy in gonnella, mette le due donne in enorme difficoltà. La Stefanik pone loro domande in cui sovrappone costantemente e intenzionalmente i concetti di resistenza contro l’oppressione israeliana e di assassinio del popolo ebraico, fino a ottenere dalle rettrici una risposta che le espone all’accusa di corresponsabilità nell’istigazione al genocidio degli ebrei. Il risultato è quello sperato: immediato per quel che riguarda Liz Magill, posticipato per Claudine Gay. Nonostante il sostegno della sua istituzione, quest’ultima viene infatti accusata di plagio nei suoi lavori da una straordinaria campagna di diffamazione nei suoi confronti e, infine, finalmente costretta alle dimissioni.

Diversa è la situazione per la rettrice della Columbia, giacché ella fin dall’inizio si presenta più allineata al nuovo imperativo della repressione del dissenso anti-Israele. Sotto la spinta di vari miliardari, fra cui Henry Swieca e Leon Cooperman, che ritirano il proprio appoggio finanziario all’istituzione lamentando la sua politica di sostegno all’antisemitismo per aver permesso agli studenti delle associazioni Students for Justice in Palestine e Jewish Voice for Peace di manifestare in campus o di organizzare dei walks out –l’amministrazione dell’Università sanziona, infatti, le due associazioni studentesche, proibendo loro di organizzare future proteste e tagliando i rispettivi fondi universitari fino alla fine dell’anno. Quando poi la rettrice – Nemat Shafik – il 17 aprile di quest’anno viene a sua volta interrogata dal Congresso, le sue risposte sono in completa sintonia con il nuovo spirito censorio che si vuole imporre nei campus[7]. L’arresto, che segue alla sua richiesta di intervento della polizia, di tutti i ragazzi che protestavano pacificamente accampati nel prato antistante la Columbia, ne è la riprova. La mossa si rivela però un boomerang, provocando una reazione a catena tanto nella stessa Columbia, quanto nei moltissimi campus universitari che, in solidarietà con le proteste studentesche a Manhattan, vengono via via occupati in tutto il paese.

Il free speech eliminato per legge

Quel che ne scaturisce è storia di questi giorni: una storia fatta di pestaggi da parte della polizia, arresti, sospensioni o espulsioni dall’Università di studenti e studentesse che chiedono di non essere complici, attraverso l’investimento delle loro altissime tasse di iscrizione, del massacro in atto. E’ lo scontro fra i sostenitori delle politiche israeliane (molti sono minoranze etniche trumpiste non ebree) che attaccano gli studenti in protesta a favore della Palestina (la metà di loro sono ebrei), picchiandoli, gettando su di loro spray urticante e bruciandone le tende sotto gli occhi di una polizia del campus inerte, come succede all’Università della California di Los Angeles, da cui sono poi i protestanti ad essere espulsi e arrestati. E’ la storia di un Congresso che auspica -tramite le parole dello speaker della Camera, Mike Johnson, ma anche attraverso la lettera di 21 deputati democratici[8] – la repressione di tutte le proteste e minaccia di togliere i fondi federali (ammontanti per la Columbia ad esempio a ben 1.212.635 miliardi l’anno) alle Università disobbedienti. E che, come se non bastasse, convoca i vertici delle scuole pubbliche di alcuni distretti del paese per sottoporli ad audizioni simili a quelle cui ha sottoposto le rettrici universitarie. L’accusa per il presidente delle scuole di New York è di non aver licenziato, ma solo rimosso, il dirigente di una scuola che non aveva punito gli studenti che avevano criticato come filoisraeliana una loro professoressa; per la sovraintendente delle scuole di Berkeley, California, il rimprovero dipende invece dal non avere preso posizione contro una professoressa che aveva dedicato qualche ora del suo insegnamento ad analizzare il possibile apartheid messo in atto da Israele nei confronti di Gaza![9]

A far da sfondo a uno dei più pesanti attacchi alla libertà di pensiero degli ultimi tempi, condotto negli Stati Uniti contro scuole e università, stanno i tanti intellettuali che chiedono agli studenti di prendere esplicitamente le distanze da Hamas, li avvisano che le proteste contro la guerra del Vietnam nel 1968 erano servite solo a far ottenere la presidenza a Nixon (colpevolizzandoli così per un’eventuale vittoria di Trump a novembre), dicono loro di andare in Palestina se vogliono davvero dare una mano ai palestinesi o che se le università disinvestono dalle industrie delle armi costerà loro di più l’iscrizione e li accusano infine di creare un clima di antisemitismo[10]. Nulla di meglio per un Congresso che sta per votare una legge (l’Antisemitism Awareness Act), già approvata a larga maggioranza dalla Camera, che sollecita il ministero dell’istruzione a codificare una definizione di antisemitismo che include la critica antisionista a Israele[11].

“No, signor Netanyahu non è antisemita o pro-Hamas sottolineare che, in poco più di sei mesi, il suo governo estremista ha ucciso 34 mila palestinesi e ne ha feriti più di 78 mila, il 70 per cento dei quali sono donne e bambini», ha dichiarato Bernie Sanders in Senato, denunciando come quello di Netanyahu sia un “governo estremista e razzista”. Quando l’Antisemitism Awareness Act passerà, simili dichiarazioni saranno invece antisemite per legge e negli Stati Uniti, la land of the free, ogni parvenza di espressione libera del proprio pensiero verrà cancellata per sempre.


[1]  “Come studenti il nostro messaggio e’ chiaro: non permetteremo che i soldi della nostra retta universitaria contribuiscano al genocidio in Palestina”. ” Siate trasparenti, disinvestite, noi non molleremo, non vi daremo pace”

[2] Per un passato di restrizioni determinate dalla realpolitik mi permetto di rinviare al mio:

 I mobili confini della libertà di espressione negli Stati Uniti e il metro della paura, in Questione Giustizia, 4/2015, pp. 47ss.

[3] Cfr. https://theintercept.com/2024/04/15/nyt-israel-gaza-genocide-palestine-coverage/

[4] Cfr. Street v. New York, 349 U.S. 576 (1969).

[5] Cfr. Sweezy v. New Hampshire, 354 U.S. 234 (1957); Keyishian v. Board of Regents, 385 U.S. 589 (1967).

[6] Cfr. Communist Party of U.S. v. Subversive Activities Control Bd, 81 S.Ct. 1357, 1431 (1961).

[7] Cfr. https://www.nytimes.com/2024/04/17/nyregion/columbia-university-president-nemat-shafik-hearing.html

[8] Cfr. https://www.nytimes.com/2024/04/30/nyregion/antisemitism-republicans-johnson-college-protests.html?smid=url-share; https://www.documentcloud.org/documents/24624047-final-letter-to-columbia-university-board-of-trustees

[9] Cfr. https://www.nytimes.com/2024/05/08/us/house-gop-public-school-leaders-antisemitism.html?smid=nytcore-android-share; https://www.nytimes.com/2024/05/07/us/berkeley-schools-israel-hamas-war.html?smid=nytcore-android-share

[10] Cfr. i tanti interventi sul New York Times non solo di Thomas Friedman (https://www.nytimes.com/2024/05/08/opinion/campus-protests-gaza.html?smid=nytcore-android-share), ma anche David Brooks (https://www.nytimes.com/2024/05/02/opinion/student-protests-trump.html?smid=nytcore-android-share) o Nicholas Kristof (https://www.nytimes.com/2024/05/01/opinion/student-protests-gaza.html?smid=nytcore-android-share). 

[11] Cfr. https://jacobin.com/2024/05/antisemitism-bill-bund-jewish-history.


*Elisabetta Grande insegna diritto comparato all’Università del Piemonte Orientale e da quasi quarant’anni studia il sistema giuridico statunitense. Ha pubblicato più di 180 fra articoli e libri accademici sul tema e collabora regolarmente con MicroMega e Volere la luna.

Print Friendly, PDF & Email