Non c’è liberalismo democratico senza conflitto e senza un forte movimento socialista

Stefano G. Azzarà*

Non bisogna mai stancarsi di ricordare che il liberalismo – una filosofia politica comunque assai variegata – si è convertito molto tardi alla democrazia moderna e solo quando il movimento socialista e le lotte reali lo hanno costretto. Fosse stato per gran parte dei liberali – i quali quando si sono visti sfuggire il potere dalle mani si sono rivolti ai fascisti – saremmo ancora al dominio dei notabili e alla restrizione censitaria del suffragio. Che poi è proprio dove stiamo tornando, da quando le classi subalterne non riescono più ad agire autonomamente il conflitto e il programma liberale può dispiegarsi in assenza di attrito (se non quello della concorrenza intracapitalistica) e in forme quasi pure. A tal fine, può essere utile una breve ricostruzione storica.

Liberalismo reale e schiavitù

Che cos’è quel liberalismo di cui oggi il mondo della cultura come l’establishment politico si dichiarano entusiasti interpreti? É un fatto che lo stesso liberalismo sia andato incontro negli ultimi decenni a un processo di involuzione rispetto alle posizioni che aveva acquisito nel corso del Novecento. Nella forma del “neoliberismo” o “neoliberalismo” dei nostri giorni, ricordava alcuni anni fa Domenico Losurdo, esso sta procedendo «a una gigantesca epurazione della società “liberaldemocratica” dagli elementi (o dal maggior numero possibile di elementi) di democrazia e, a maggior ragione, di democrazia sociale»[1], e cioè «da ciò che vi hanno introdotto le lotte prolungate del movimento operaio e popolare», recuperando per tanti aspetti le posizioni del liberalismo ottocentesco o addirittura precedente.

Sin dalle sue origini, in realtà, il liberalismo si è mostrato animato da un’intima contraddizione. Esso ha elaborato sì i concetti di individuo e libertà ma è sempre risultato del tutto incapace di pensarli fino in fondo in una dimensione universale. Il terreno politico-sociale su cui è possibile misurare questa contraddizione è – sintomaticamente – quello stesso dei primi paesi “liberali”, impegnati già nel momento della loro nascita non solo in un dibattito teorico ma in un confronto urticante con i problemi che ai cantori della libertà poneva la presenza dei popoli colonizzati e quella di un istituto molto concreto come la schiavitù.

Chiarissimo è allora l’intreccio sistematico che, sia sul piano teorico che su quello della prassi, è sussistito sin dalle origini di questa teoria politica tra liberalismo, schiavitù e persino genocidio. Il primo paese a dotarsi di ordinamenti in qualche modo “liberali” è stata l’Olanda dopo la ribellione contro il dominio spagnolo. Sono state proprio le Province Unite, però, a rilanciare in grande stile da quel momento l’espansione coloniale europea e a impegnarsi nella tratta dei neri, contendendone il controllo alla Spagna. Lo stesso fenomeno si è verificato poi con l’Inghilterra dopo la Gloriosa Rivoluzione, la quale ha instaurato per la prima volta il potere politico delle classi proprietarie in nome della libertà della società civile e degli interessi dell’individuo, sottoponendo a limiti rigorosi il potere assoluto del sovrano. La sua prima misura di politica estera è consistita infatti nello strappare alla Spagna l’Asiento, diventando con ciò la potenza monopolista nella tratta dei neri destinati alla madrepatria e soprattutto alle colonie americane. Ma l’Inghilterra protoliberale si distingueva in quei secoli anche per la particolare durezza messa in atto nel sottomettere l’Irlanda, una durezza che alla resistenza delle popolazioni locali rispondeva sistematicamente con l’oppressione e il massacro. Anche per quanto riguarda i rapporti sociali interni, la nuova Inghilterra liberale, impegnata a promuovere l’accumulazione originaria e lo sviluppo dell’industria, non ha mai esitato poi a perseguitare le popolazioni contadine espropriate e a farne manodopera operaia a basso costo, mediante una legislazione che – come ricordava Marx – puniva con l’arresto il vagabondaggio e ancora nell’Ottocento perseguitava a tal punto i mendicanti e gli indigenti da privarli della libertà personale e prevederne la reclusione nelle temibili Work Houses, gli istituti di lavoro coatto.

Infine gli Stati Uniti, il paese in cui queste contraddizioni sono più evidenti. Essi sono nati da un atto di ribellione che ha rotto l’unità del mondo anglosassone – un mondo che già allora tendeva a identificarsi come campione della libertà e del primato dell’individuo in un mondo per il resto traboccante di tirannia, guerra ed oppressione, nonché ad autoattribuirsi la missione dell’esportazione planetaria di questi valori – e dello stesso partito liberale. I coloni si erano ribellati alla Gran Bretagna in nome di un liberalismo più compiuto: affrancarsi dal dispotismo della madrepatria e edificare un nuovo ordine integralmente repubblicano, fondato sulla rappresentanza degli individui liberi per natura. Eppure, le istituzioni repubblicane statunitensi sapranno convivere per un secolo con la forma più brutale di schiavitù razziale, che verrà abolita soltanto in seguito a una guerra sanguinosa e che lascerà dietro di sé una persistente ideologia della White Supremacy assieme a forme di odiosa discriminazione che tuttora risultano insuperate. Del resto, sin dagli inizi dell’espansione coloniale dell’Occidente la natura umana dei popoli coloniali e di colore è stata messa in dubbio e forte è stata la tendenza ad assimilare gli indigeni alle bestie selvagge e pericolose, del cui assoggettamento o annientamento nessuno avrebbe potuto scandalizzarsi. Nell’America del Nord, in particolare, l’esaltazione della libertà del colono, nonché del ruolo civilizzatore della razza anglosassone e del cristianesimo, aveva saputo andare di pari passo con il genocidio delle nazioni indiane senza che lo sterminio di questi selvaggi infedeli risultasse contraddittorio.

Una discriminazione esplicitamente teorizzata

Non si trattava di degenerazioni o ricadute empiriche di nobili ideali. Queste pratiche erano pienamente consapevoli ed erano giustificate e persino teorizzate dai principali esponenti coevi del pensiero liberale. Già in Grozio, ad esempio, era del tutto legittimata la riduzione in schiavitù e anche lo sterminio delle popolazioni pagane, e cioè quelle dei paesi colonizzati, ribelli a dio e al sovrano. La “guerra giusta” che veniva mossa contro di loro li rendeva, come tutta una tradizione di pensiero che risale ad Aristotele ha insegnato per secoli, legittima proprietà del vincitore. Il principale teorico del liberalismo e dei limiti del potere sovrano, Locke, non solo aveva interessi economici nella tratta degli schiavi ma affermava il potere assoluto del padrone sugli uomini-merce in sua proprietà, un potere che consente a questi di venderli come di condannarli a morte a propria discrezione.

Proprio in Locke, che aveva collaborato alla redazione della norma costituzionale che sanciva la schiavitù in Carolina, può essere individuato il punto di passaggio alla schiavitù moderna vera e propria e cioè la schiavitù-merce su base razziale, laddove fino a quel momento i confini tra la schiavitù e le diverse forme di servitù (servitus perfecta/servitus imperfecta) – tra le quali rientrava per certi versi lo stesso lavoro salariato – era ancora piuttosto labile. Tuttora celeberrima è tra l’altro la giustificazione lockiana del diritto dei coloni di espropriare le terre degli indiani, inadatti a lavorarle e farle fruttare e perciò privi di qualunque titolo di proprietà su di esse. Era una posizione presente del resto in quasi tutti gli uomini politici e negli intellettuali che hanno collaborato alla fondazione e costruzione della repubblica statunitense o che l’hanno sostenuta: dai Padri Fondatori fino a Calhoun e oltre, l’esaltazione della libertà dell’individuo e della società nei confronti del potere politico, l’odio verso la schiavitù politica che era stata abolita nell’emisfero occidentale ma sussisteva ancora nell’Europa monarchica, conviveva senza scrupoli con la rivendicazione della naturalezza, della legittimità e anche della necessità della schiavitù razziale.

Sono posizioni non spiegabili in considerazione dell’epoca storica e della sensibilità morale del momento: il rifiuto della schiavizzazione e del genocidio, insieme al riconoscimento della piena umanità dei popoli colonizzati, era infatti già presente nel dibattito che aveva accompagnato la conquista dell’America (pensiamo a Las Casas o a Montaigne) e non era affatto sconosciuto nemmeno ai contemporanei di Locke e dei Padri Fondatori. Rispetto a una sensibilità morale già in formazione, si può dire in questo senso che il liberalismo abbia rappresentato anzi un netto salto all’indietro, al punto che, non a caso, alcuni autori di quell’epoca, avvertendo con nettezza questa contraddizione, erano arrivati persino a rovesciare i presupposti del pensiero liberale e della sua fenomenologia del potere, nella quale il conflitto tra libertà e schiavitù coincideva esclusivamente con quello tra Stato e società civile. Essi auspicavano così che un qualche potere politico centrale – la Corona, il Governo oppure la Chiesa… – potesse limitare, anche attraverso misure dispotiche, quello scatenamento del potere che proprio la società civile e i suoi elementi più forti, emancipatisi dall’assolutismo, esercitavano ormai senza più freni sulla proprietà umana. É quanto avverrà con la guerra civile americana, nel corso della quale Lincoln verrà accusato non a caso esattamente di dispotismo assolutistico e di illiberalismo giacobino dai liberali sudisti, difensori della schiavitù e della “peculiare libertà” americana.

Proprio questo episodio storico ci mette di fronte nel modo più brutale a ciò che Losurdo definiva come il «paradosso»[2] del liberalismo. Il problema non consiste nel fatto che il liberalismo, il quale muoveva tra XVII e XVIII secolo i suoi primi passi, non fosse riuscito a liberarsi dei retaggi premoderni. «La schiavitù», diceva Losurdo, «non è qualcosa che permanga nonostante il successo delle tre rivoluzioni liberali; al contrario, essa conosce il suo massimo sviluppo in seguito a tale successo». Essa non era dunque il segno di una incompiutezza del liberalismo: non ne costituiva la contestazione ma era semmai una sua costante di sviluppo e la condizione stessa d’esistenza delle prime società liberali. Esiste insomma un inaggirabile «nesso tra permanenza e rafforzamento dell’istituto della schiavitù, da un lato, e potere degli organismi rappresentativi» dall’altro.

Limitazione del potere sovrano e scatenamento del potere dei più forti nella società civile

La vittoria della società civile nel suo conflitto con il potere assoluto non è avvenuta nel vuoto spinto ma nell’ambito di rapporti sociali di potere, cultura e proprietà fortemente squilibrati. In una società, quella dell’area anglosassone che ha dato i natali al liberalismo, in cui esistevano padroni e servi, proprietari e schiavi, contadini e lavoratori salariati. La rottura del monopolio monarchico del potere politico ha scatenato gli interessi e gli egoismi disseminati al suo interno e ha portato così in primo piano un diverso conflitto ad essa immanente; un conflitto orizzontale nel quale i gruppi dominanti, i quali avevano abbattuto l’assolutismo non tollerando più alcuna tutela politica, erano ormai liberi di far valere indisturbati i rapporti di forza vigenti nei confronti degli altri gruppi, fino ad arrivare all’estremo delle forme di oppressione più crudeli. «Ascesa del liberalismo e diffusione della schiavitù-merce su base razziale sono il prodotto di un parto gemellare», perché la retorica della «libertà»[3] e dell’«autogoverno della società civile» si andava legando da quel momento alla «realtà di un potere assoluto senza precedenti». Un potere che si dimostrava eccezionalmente brutale sugli schiavi ma che si esercitava con solerzia anche sulle classi subalterne della stessa metropoli, anch’esse de-umanizzate e considerate a lungo bisognose di tutela, e la cui reale libertà e i cui diritti civili, economici e sociali – per non parlare di quelli politici – erano tutt’altro che riconosciuti e garantiti.

A partire da queste considerazioni, ben difficilmente gli Stati Uniti dalla fondazione fino alla fine dell’Ottocento possono essere considerati come un paese “liberale” nel senso odierno del termine. In essi è stata a lungo in vigore una rigida separazione della popolazione in gruppi chiusi, a ciascuno dei quali veniva assegnata una legislazione diversa e una diversa regolamentazione dei diritti e dei doveri: talmente differenti erano le condizioni dei bianchi, dei neri liberi e degli schiavi, da consentire di parlare a tutti gli effetti un ordinamento castale. La corretta definizione di questo regime era per Losurdo, che seguiva qui autori come Van den Berghe e Fredrickson, quella di «Herrenvolk democracy»[4] e cioè di «democrazia che vale solo per il “popolo dei signori”». In quel tipo di regime la discriminazione nei confronti dei neri e la loro riduzione a proprietà umana, assieme a un’ampia disponibilità di terra strappata agli indiani nell’avanzamento della frontiera del West, facilitava cioè lo sviluppo di rapporti tendenzialmente paritari, sebbene non privi di contraddizioni e conflittualità di classe e status, all’interno della comunità dei bianchi liberi. «I membri di un’aristocrazia di classe o di razza tendono ad auto-celebrarsi come i “pari”»[5] e proprio la «netta disuguaglianza imposta agli esclusi è l’altra faccia del rapporto di parità che s’instaura fra coloro che godono del potere di escludere gli “inferiori”».

Un ragionamento analogo può essere fatto però anche per ciò che accadeva all’interno dell’Impero britannico, nel quale tra la casta dei bianchi liberi e dei neri schiavi, confinati per lo più nelle colonie, si ingrossava sempre più quella intermedia dei servi, in questo caso bianchi, le cui “libertà” non erano minimamente paragonabili a quelle dei padroni e che non potevano certamente essere detti “liberi” in senso stretto, viste le limitazioni e i doveri ai quali erano sottoposti. In quella che costituiva di fatto una razza inferiore – alla quale dai liberali era negata già la libertà moderna, la libertà negativa, e che agli occhi di certi autori, soprattutto con l’affermarsi delle tendenze socialdarwinistiche ed eugenetiche, prendeva le forme di una vera e propria razza da allevamento – doveva essere inscritto fin oltre la metà dell’Ottocento lo stesso lavoro salariato e, in generale, il vasto mondo degli indigenti e dei miserabili, spesso costretti a mendicare e a perdere in tal modo ogni diritto civile. É chiaro che a questa “moltitudine bambina”, priva di cultura e discernimento politico, non poteva essere concesso il diritto di voto. Qui al posto della segregazione razziale troviamo quella sociale, mentre al posto dei neri o degli indiani veri e propri troviamo popolazione irlandese o dell’India sottomessa. Già un autore insospettabile come Tocqueville, oltretutto, aveva notato come in Inghilterra prevalesse una concezione aristocratica della libertà che era intesa come il privilegio di una casta proprietaria.

Lo stesso fenomeno si può constatare, del resto, se si solleva lo sguardo al campo delle relazioni internazionali. Nel corso dei secoli, l’espansione coloniale dell’Occidente e dei paesi liberali aveva infatti finito per erigere una sorta di «“democrazia per il popolo dei signori” di dimensioni planetarie»[6]. Da un lato, la rivendicazione della libertà di movimento delle grandi potenze, che pretendevano il diritto di procacciarsi risorse, mercati, materie prime e persino uno “spazio vitale” al di fuori dei confini del mondo cosiddetto civile. Dall’altro, le terre “vergini”, le culle vuote dei territori coloniali, alle cui popolazioni non veniva conferito nessun tipo di riconoscimento. Vivendo in condizioni di barbarie, esse non avevano alcuna possibilità di autodeterminarsi e non potevano rivendicare alcun diritto. Su di esse poteva invece essere esercitata la più ferrea dittatura pedagogica e la loro schiavizzazione o sfruttamento non costituiva sotto questo aspetto nessuna violazione del principio di libertà. Persino il loro sterminio, al contrario, era per certi versi un atto dovuto, di fronte alla resistenza illegittima che essi opponevano irrazionalmente alla marcia provvidenziale della civiltà liberale!

Una dialettica di inclusione ed esclusione. Il liberalismo ha bisogno del socialismo

Anche in questo caso, poi, è possibile osservare la dialettica strettissima di inclusione ed esclusione che animava il pensiero e la prassi liberale: al rilancio dell’espansione coloniale corrispondeva sistematicamente una simmetrica nazionalizzazione delle masse in chiave social-imperialistica e cioè l’inclusione graduale delle classi subalterne della metropoli, facilmente decapitate sul piano ideologico (pensiamo all’apprezzamento del colonialismo da parte di certi filoni sciovinisti dello stesso socialismo europeo) e cooptate nella cerchia dei “signori”, sebbene in posizione subalterna. Per tanti aspetti, questo medesimo meccanismo dialettico avrebbe condotto nel secondo dopoguerra del Novecento a riassorbire o cooptare gli ebrei e lo stesso Stato di Israele, a lungo considerati come un corpo estraneo al mondo civile e pericoloso, nell’ambito della comunità occidentale dei popoli liberi, intensificando simultaneamente le discriminazioni nei confronti dei popoli musulmani e dei paesi arabi, rei di non accettare il ruolo che spettava loro all’interno del nuovo ordine internazionale semicoloniale.

Solo dopo la Seconda guerra mondiale, incalzato dalle lotte del movimento socialista e dalla lotta di classe nazionale e internazionale, il liberalismo fa i conti con il proprio passato coloniale e razzista – dal quale avevano attinto a piene mani tanto il fascismo quanto il nazismo – e ha scoperto la democrazia moderna. Va contestata pertanto l’idea di una sua evoluzione puramente lineare da una preistoria ancora rozza e incompiuta, nella quale potevano essere giustificate le clausole d’esclusione che abbiamo ripercorso, sino a una sua modernità pienamente dispiegata, nella quale si sarebbe assistito al trionfo della libertà liberale generalizzata. L’analisi storica confuta in realtà nel modo più assoluto questa apologetica. La storia che ha condotto da Locke al liberalismo democratico del Novecento (il quale ultimo ha costituito comunque solo una parte minoritaria del liberalismo e solo un suo momento storico particolare) non si è sviluppata in continuità ma è si è frammentata in un susseguirsi contraddittorio di movimenti progressivi e regressivi, in un intreccio indissolubile di spinte di emancipazione e di altrettanto drastiche ricadute de-emancipative che segue l’andamento dei rapporti di forza tra le classi e tra centro e periferie del mondo. Tante volte il liberalismo è arrivato a pensare e realizzare l’ampliamento della sfera dei diritti e delle libertà nei confronti dei gruppi subalterni e delle razze escluse, altrettante volte esso, di fronte alla contingenza storica e allo stato d’eccezione, si è dimostrato privo di scrupoli nel rimetterlo in discussione e nel revocarlo, fino a «tornare» a quel “liberalismo puro” che non va confuso in alcun modo con il più tardo “liberalismo democratico”. In particolar modo, tutta la prima parte del Novecento è stata attraversata dal tentativo ricorrente di ricacciare indietro su scala planetaria le spinte di emancipazione degli esclusi, tanto per quanto riguarda la pressione delle classi lavoratrici verso una piena inclusione sociale, quanto per i movimenti di liberazione nazionale dei popoli coloniali. Un tentativo – che ha costituito il proseguimento dell’esperienza coloniale con altri mezzi e che dalla guerra totale imperialistica ha condotto alle guerre e alle istituzioni totali del XX secolo – nel quale però il liberalismo è stato completamente compromesso, al punto di poter essere annoverato tra i principali corresponsabili dello scatenamento della cosiddetta seconda guerra dei Trent’anni.

Anche l’idea di uno sviluppo spontaneo dal liberalismo alla democrazia, sostenuta con passione tra gli altri a suo tempo da Norberto Bobbio, risulta però errata. Lungi dal dimostrare un processo di maturazione immanente, che lo avrebbe portato pian piano a liberarsi da sé delle clausole d’esclusione che lo avevano caratterizzato sin dall’inizio, il liberalismo è evoluto unicamente attraverso l’urto con l’esterno, con l’altro, con la realtà storico-sociale e politica. Non è stato il dispiegarsi coerente di un’idea ciò che si è verificato, insomma, ma lo scontro drammatico con la durezza dell’oggettività. A partire dalla sua genesi storico-sociale determinata, il pensiero liberale ha scontato sin dall’inizio della sua parabola un’irriducibile incapacità di pensare in maniera universalistica. La cesura tra spazio sacro e spazio profano, che è costitutiva del suo statuto epistemologico, non gli ha mai permesso di riflettere fino in fondo sui diritti e sulle libertà, che esso ha percepito sempre e unicamente come diritti e libertà parziali: non più come privilegi aristocratici, certamente, ma comunque esclusivamente propri di coloro che godono del riconoscimento, dei soli membri della comunità dei liberi, al punto che il liberalismo sembra in effetti in contraddizione con la scoperta moderna dell’individuo come soggetto autonomo di diritti!

C’era e c’è tutt’ora nel liberalismo, si può dire, la forma dell’universalità; ma questa forma è rimasta a lungo un’esigenza priva di contenuto, perché priva di quel soggetto – l’essere umano in quanto tale – che avrebbe dovuto esserne il portatore. Solo il conflitto, solo l’incontro con il negativo, e cioè con la reale presenza degli esclusi e delle loro rivendicazioni, ha costretto ad un certo punto la tradizione liberale, incalzata dal movimento democratico e socialista, ad aprirsi. È ciò che il nostro movimento, se vuole risollevarsi, deve ricominciare a fare anche oggi, anche per salvare il liberalismo stesso.


[1] La Seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 19.

[2] La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 37-9.

[3] Ivi, p. 42.

[4] Ivi, pp. 107 e 333.

[5] Ivi, pp. 107-8. Cfr. REV, pp. 76-7.

[6] Ivi, p. 216 sgg.


*Stefano G. Azzarà insegna Storia della filosofia all’Università di Urbino. Il suo lavoro si concentra sulla comparazione delle grandi tradizioni filosofiche e politiche del XIX e XX secolo: conservatorismo, liberalismo, materialismo storico.

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