Occidente, un mito al tramonto?
Floriana Lipparini*
Spesso i simboli si rivelano carichi di profezie, e forse anche in questo caso. Occidente, un nome che per tanto tempo è sembrato incarnare un progetto di civiltà e di progresso, etimologicamente significa tramonto. È l’ovest, il punto in cui il sole tramonta, la fine della giornata. Proseguendo una lettura simbolica, possiamo arrivare al promontorio di Finisterre, in Galizia, che i Romani credevano fosse il punto più occidentale d’Europa tanto da chiamarlo appunto Finis Terrae, fine del mondo conosciuto.
Non so se questo insieme storico-etimologico si possa leggere come una metafora, ma fa riflettere sull’innegabile crisi che l’Europa e l’Occidente nel suo complesso stanno attraversando. Sembrano in effetti avviarsi al tramonto quel primato e quella potenza che hanno dato forma al mondo moderno nel bene e nel male, occultando secoli di sanguinose violenze e brutalità sotto il segno (o nel sogno?) della democrazia e dei diritti. Ma quando nominiamo l’Occidente in realtà di cosa parliamo? Di una realtà storica? Di un modello culturale? Di un’antropologia? O di un mito che si sta sgretolando, ora che sembrano cambiare gli equilibri geopolitici e l’Europa non sa affrontare le conseguenze delle sue guerre di conquista e di rapina, dei colonialismi e dei fascismi?
Scriveva Simone Weil: “L’Europa è stata sradicata spiritualmente, recisa da quella antichità in cui tutti gli elementi della nostra civiltà hanno la loro origine, e a sua volta, a partire dal XVI secolo, è andata a sradicare gli altri continenti; […] Lo zelo dei missionari non ha cristianizzato l’Africa, l’Asia e l’Oceania, ma ha portato queste terre sotto il dominio freddo, crudele e distruttivo della razza bianca, che ha annientato tutto” (Lettera a un religioso, trad. it. G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996, p. 34).
Contraddizioni e differenze
Errori e responsabilità di questa lunga storia ci pesano sulle spalle anche se non ne siamo direttamente colpevoli. Quando entra in relazione con donne di altre culture, per una femminista è molto importante situarsi rispetto al luogo in cui è nata e alla storia da cui proviene. Apparteniamo a questa parte del mondo, il nostro dna è in buona parte quello dei conquistadores e del colonialismo, anche se la categoria Occidente come tutte le categorie nasconde la pluralità e la diversità dei tanti soggetti che la compongono, e le differenze che al suo interno si sono variamente intrecciate nel corso della storia fra oppressi e oppressori, generando insuperabili contraddizioni.
Oppressioni di genere, oppressioni di classe, oppressioni ideologiche e culturali. Nell’Occidente che molti hanno creduto rappresentare un “faro di civiltà”, chiudendo gli occhi sull’altra faccia della storia, le donne hanno crudelmente sofferto atroci discriminazioni e persecuzioni, così come le minoranze o gli eretici. E hanno subito una violenza che non finisce mai, anzi sembra di questi tempi persino aggravarsi con il tragico moltiplicarsi dei femminicidi. Di fronte a questa gravissima contraddizione fra l’astrattezza teorica dei principi e la concreta materialità dei fatti, molte donne hanno però saputo innescare un processo di consapevolezza e disidentificazione da quei codici guerreschi e predatori che nel corso del tempo hanno connotato l’agire dell’Occidente e che corrispondono perfettamente al codice patriarcale, la dismisura della volontà di dominio. Con le loro lotte sono riuscite ad autodeterminarsi e a ottenere diritti un tempo impensabili, pur se ancor oggi queste conquiste sono largamente imperfette e non compiutamente applicate, come purtroppo gli stessi principi democratici che sono sempre in pericolo e mai dati una volta per sempre.
Ma non possiamo ignorare che esiste comunque un’innegabile disparità tra la condizione delle donne occidentali e quella delle donne che vivono principalmente nel sud del mondo. Non si tratta di differenze culturali da rispettare, ma di diritti umani fondamentali e di inviolabilità dei corpi. In molti Paesi il faticoso viaggio delle donne verso la liberazione e l’autodeterminazione è ancora lontanissimo dalla meta. Lo impediscono con ogni mezzo integralismi religiosi, arcaiche culture violente e misogine, regimi autocratici e veteropatriarcali. Parliamo dell’Afghanistan dove le donne per sopravvivere devono stare murate in casa senza poter frequentare nemmeno la scuola, parliamo dell’Iran dove le donne vengono assassinate dalla polizia morale se qualche ciocca di capelli sfugge da sotto al velo, di molti altri Paesi di area mediorientale e africana, o dell’India dove in alcuni ceti la vita delle donne non conta niente e i diritti semplicemente non esistono.
Senza un ruolo e senza voce
E anche qui le contraddizioni non mancano. In alcuni casi l’aggravarsi della guerra contro le donne è anche frutto dei rivolgimenti politici della storia recente. Ad esempio, prima del regime khomeinista le donne iraniane non subivano le attuali orrende costrizioni, pur vivendo sotto un monarca dispotico e asservito agli interessi degli Usa che non risparmiava violenze e torture ai dissidenti. E in Egitto nella prima metà del secolo scorso fiorì un importante movimento femminista rivendicato da donne straordinarie.
Con le sue leggi e le sue (parziali) rivoluzioni nel campo dei diritti delle donne, l’Occidente contemporaneo può sentirsi dunque al sicuro da critiche e contestazioni? Mi sembra difficile se solo pensiamo al ruolo delle truppe Nato in Afghanistan contro il regime dei Talebani con l’alibi della difesa delle donne. Come sappiamo, la realpolitik del neoliberismo globale non si fa nessuno scrupolo per accaparrarsi posizioni e risorse scatenando ovunque guerre a bassa, media o alta intensità, ma l’ipocrisia sui corpi e le libertà delle donne afghane è stata particolarmente abominevole. Dall’Afghanistan la Nato infine se n’è andata ma i Talebani sono più forti di prima, le donne più prigioniere di prima.
Si è sempre detto che l’Europa, cuore dell’Occidente e forte della sua millenaria cultura, sarebbe stata portabandiera dei valori di libertà, democrazia, pace e diritti. Ma il compito sembra essere troppo impegnativo per questa fragile costruzione troppo soggetta agli interessi nazionali mai fattisi da parte, troppo coinvolta nelle logiche del capitalismo globale e troppo incapace di risolvere le proprie contraddizioni. Ne è prova la gravissima assenza di un autonomo ruolo e di una forte voce sia nella guerra in Ucraina sia nella tragedia di Gaza.
Invece di esplorare fin dal primissimo momento ogni mezzo diplomatico possibile e impossibile per promuovere una mediazione fra Russia e Ucraina e far tacere le armi, l’Europa si è immediatamente allineata ai diktat di chi voleva la guerra a ogni costo. E invece di rispettare la propria supposta vocazione alla pace, chiedendo con forza il cessate il fuoco in Palestina, ha in pratica taciuto sul massacro a Gaza di oltre trentacinquemila civili, fra cui un altissimo numero di donne e bambini. Una crudele e smisurata vendetta su cui si è espressa il 26 gennaio la Corte internazionale di giustizia dell’Aja chiedendo a Israele di fare tutto il possibile per “prevenire possibili atti genocidari”. Ma a sterminio purtroppo già avvenuto, che significa prevenire?
La guerra ricaccia indietro le donne
Oggi poi, senza nessun pudore rispetto a una minima coerenza con la nostra Costituzione e le norme internazionali, c’è chi straparla di esercito europeo, nuovi armamenti e intervento di truppe in Ucraina per una guerra che tra l’altro nessuno dei Paesi europei ha dichiarato. Dovrebbe esserci un limite alle contraddizioni quando ne deriva un incommensurabile numero di vittime, la recrudescenza delle guerre, il rischio nucleare e il tradimento del diritto internazionale miracolosamente conquistato dopo la seconda guerra mondiale. Questa nuova fase storica fondata sulla violenza, in cui l’Occidente sembra perdere ogni possibile ruolo positivo, sta già ricacciando indietro le donne e le loro ancora fragili conquiste, con l’oggettiva e soggettiva complicità di certe rappresentanti politiche giunte al vertice del potere in alcune istituzioni. Che fare? Eterna domanda. Resistere, certo, e riprendere a lottare in una dimensione realmente transnazionale per bandire la guerra dalla storia e sostenere il diritto alla libertà e all’autodeterminazione delle donne in ogni luogo del mondo. Occorre avviare un confronto permanente fra donne diverse interessate a costruire un nuovo assetto del mondo che ponga al centro la cura della vita. In questo senso può aiutarci la presenza fra noi delle donne migranti, in un rapporto di conoscenza che vicendevolmente ci arricchisca e ci trasformi, portandoci in una nuova dimensione oltre i confini e i muri delle vecchie, asfittiche identità patriarcali.
*Floriana Lipparini, Milanese, giornalista, femminista, cofondatrice della Casa delle Donne di Milano, responsabile della Rete femminista “No muri No recinti”. Autrice di numerose pubblicazioni, fra cui il libro “Per altre vie. Oltre la mente patriarcale”.