Per una società della cura alternativa all’economia del profitto
Marco Bersani
Se dovessimo descrivere l’attuale multiforme crisi del capitalismo potremmo definirla come crisi della riproduzione sociale, intesa nell’accezione più ampia che comprende anche la crisi eco-climatica.
Il mercato non protegge
La lezione più importante che si può trarre dalla pandemia è la costatazione che una società interamente regolata dal mercato non è in grado di proteggere le persone.
Questa impossibilità di protezione è un elemento strutturale che si riferisce alla estrema diversità che esiste nella dimensione dello spazio e del tempo dentro la quale si organizza la vita delle persone rispetto a quella in cui si declina l’economia di mercato.
La vita delle persone si svolge dentro uno spazio limitato, la comunità di riferimento, che può arrivare ad essere anche grande come una città, ma che raramente si estende oltre; e si dipana dentro un tempo lungo che attraversa l’intera esistenza e la scandisce di molteplici tappe progettuali.
Al contrario, il mercato si organizza in uno spazio potenzialmente infinito (l’intero pianeta come luogo di espansione) ma declina le proprie scelte dentro un tempo estremamente ridotto (il riferimento è l’indice di Borsa del giorno successivo).
Questa distanza siderale fa sì che gli interessi di mercato siano quasi sempre in diretto contrasto con i bisogni della vita delle persone.
La crisi pandemica è stata da questo punto di vista la più evidente cartina di tornasole.
Per il mercato, il virus è stata una comparsa totalmente non prevista. Non è stato così per gli scienziati che in questi decenni si sono occupati di allarmi pandemici, a partire dal periodo 2001-2006, in cui sono comparse l’influenza aviaria e la Sars; per costoro, l’arrivo di una vera e drammatica pandemia non è mai stato in dubbio, in forse era solo la data in cui ciò sarebbe accaduto, perché le precedenti esperienze avevano già abbondantemente segnalato i rischi legati ai virus provenienti dagli animali che hanno fatto il salto di specie.
Per la vita delle persone, queste informazioni sono fondamentali perché consentono potenzialmente la prevenzione, ovvero la possibilità di investire risorse oggi per avere effetti positivi sulla salute nel medio-lungo periodo.
Per il mercato, la prevenzione è un costo e non produce utili, quindi è meglio non investire per prevenire una pandemia, sapendo che una volta esplosa vi sarà la possibilità di enormi profitti nel rimedio “tecnologico” alla stessa.
Il meccanismo messo in piedi da Big Pharma con la complicità dei governi è da questo punto di vista perfetto.
Le grandi multinazionali farmaceutiche hanno ricevuto enormi risorse dagli Stati per produrre in tempi record i vaccini contro il Covid19; contemporaneamente, grazie alle normative sui brevetti, ne detengono l’esclusività della produzione e della vendita, della quale stabiliscono anche i prezzi. Questo comporta una sorta di ‘apartheid vaccinale’, perché gran parte dei Paesi del sud del mondo non può acquistarli, né, sempre a causa delle normative sui brevetti, autoprodurli.
Si tratta di un’enorme ingiustizia sociale per le persone, ma di un business senza fine per le multinazionali. Gli abitanti dei Paesi poveri, non potendo curarsi, diventano una sorta di ‘esercito industriale di riserva’ per la proliferazione del virus e delle varianti dello stesso. Ogni nuova variante raggiungerà così i Paesi ricchi, determinando un’ondata di contagi, alla quale questi, potendoselo permettere, risponderanno con l’acquisto in massa di vaccini e farmaci prodotti dalle multinazionali. In questo modo, il pianeta non uscirà mai dalla pandemia, mentre le azioni in Borsa delle case farmaceutiche schizzeranno alle stelle.
Il fallimento del mercato si evince anche da un altro aspetto emerso con la pandemia. Quando l’emergenza è arrivata, il nostro Paese si è improvvisamente ritrovato molto ricco di produzioni di armi, ma totalmente sprovvisto di aziende che fabbricassero mascherine o ventilatori da terapia intensiva. Questo è successo per due fattori strettamente connessi all’economia di mercato.
Il primo è legato al totale ritiro dello Stato dalla produzione industriale diretta e dalla programmazione e pianificazione della stessa. Se cosa produrre viene deciso dal mercato, ogni produzione dovrà rispondere ad una domanda immediata o a un bisogno indotto, mai a qualcosa che riguardi una eventualità futura. Se non è in atto alcuna emergenza, nessuna azienda privata si metterà a produrre mascherine o ventilatori da terapia intensiva, dedicandosi a produzioni anche inutili o dannose, ma certamente più profittevoli.
Il secondo fattore è legato al fenomeno delle produzioni delocalizzate. Perché, in realtà, in giro per il mondo qualche azienda che producesse mascherine o ventilatori da terapia intensiva per l’Italia c’era, ma erano aziende estere, scelte per ragioni di prezzo, determinato da un più basso costo del lavoro. Peccato che, allo scoppio della pandemia, quelle aziende non abbiano più esportato verso l’Italia, perché bloccate dai rispettivi Paesi per far fronte all’emergenza interna.
Un’ultima e decisiva dimostrazione del fallimento del mercato è stata data dal collasso del sistema sanitario nazionale nella gestione della pandemia.
Un collasso che obbliga a rivisitare decenni di politiche di austerità, le quali, sull’altare ideologico della stabilità dei conti decisa da vincoli finanziari adottati a livello di Unione Europea, hanno determinato due processi di trasformazione in negativo di un Servizio Sanitario Nazionale che, solo qualche decade prima, era considerato fra i più avanzati al mondo.
Il primo è stato quello dei tagli alla sanità, che ha comportato nell’ultimo decennio un de-finanziamento di 37 miliardi di euro; il secondo è stato, da una parte, la penetrazione del privato nella gestione del sistema sanitario e, dall’altra, la progressiva torsione aziendalista della stessa sanità pubblica.
Il combinato disposto di questi processi ha provocato la rimozione del concetto di malattia come fenomeno sociale, l’abbandono della prevenzione e la conseguente scomparsa della sanità territoriale, basata sulla medicina scolastica, del lavoro e dell’ambiente. Contemporaneamente, si è aperta la strada ad un concetto di malattia come fenomeno strettamente individuale, da affrontare attraverso una tecnicizzazione esasperata della cura, sino a reificare la persona stessa, riducendola ad un insieme di organi sui quali intervenire (se vado da un otorino divento un orecchio). Il territorio è stato espropriato e il sistema sanitario è stato interamente centrato sull’ospedalizzazione, facendo la fortuna delle gestioni in mano ai privati.
Salvo ritrovarsi, all’arrivo della pandemia, con un sistema sanitario al collasso. Non è un caso che la regione nella quale l’impatto è stato più drammatico sia stata la Lombardia, cuore della decantata eccellenza della sanità privata, territorio nel quale si trova il distretto industriale più importante d’Europa, dove, mentre le strade erano attraversate da camion dell’esercito che trasportavano i cadaveri, esponenti istituzionali diffondevano video, rivolti agli investitori, dal titolo “Bergamo is running”.
Senza riproduzione sociale non è possibile alcuna altra attività
L’incapacità del mercato di assicurare protezione alle persone ci obbliga a riaprire la contraddizione storicamente determinata fra le attività di produzione economica e le attività di riproduzione sociale.
Dopo secoli di esclusiva considerazione della prima e di totale svalutazione della seconda, l’emergenza sanitaria ha costretto tutte e tutti ad arrendersi all’evidenza dell’assoluta priorità della riproduzione sociale come base necessaria di qualsivoglia attività umana.
Questa contraddizione si è resa evidente sin dal primo manifestarsi della pandemia, quando la scelta se privilegiare la continuità della produzione o le misure di salute pubblica si è fatta dirimente, a partire dalla necessità di dichiarare o meno ‘zone rosse’ in riferimento alla presenza di focolai d’infezione.
Emblematica in questo senso è stata la mancata realizzazione della ‘zona rossa’ in Val Seriana, il distretto industriale della provincia di Bergamo, quando, all’arrivo, nella notte del 5 marzo 2000, di 400 soldati per chiudere l’imbocco della valle, è seguita la ritirata degli stessi tre giorni dopo, in seguito alle pressioni economiche e politiche sul danno che sarebbe derivato dal blocco delle attività produttive. Una scelta scellerata che ha trasformato un’emergenza sanitaria in una tragedia di massa.
L’alternatività tra il Pil e la salute delle persone si è riproposta poco tempo dopo, quando si è finalmente deciso di fermare, in tutto il Paese, le attività produttive non essenziali e le imprese hanno fatto carte false per autodichiarare ogni produzione come strategica – a partire dalle aziende di produzione di armi! – provocando scioperi operai autorganizzati da lavoratrici e lavoratori in difesa della salute e delle misure di sicurezza nei luoghi di lavoro.
E ha fatto da sottofondo a tutta l’emergenza sanitaria, quando il mantra della crescita ha costretto alla privazione del diritto allo studio e alla socialità le fasce di popolazione “non produttive” come l’infanzia e l’adolescenza, con danni psicologici e sociali, dei quali solo ora si inizia a percepire l’estensione e l’intensità.
Ma è stato soprattutto il periodo di lockdown a scoperchiare il vaso di Pandora e a rendere percezione diffusa ciò che il pensiero femminista affermava da decenni, ovvero che nessuna produzione economica è possibile senza garantire la riproduzione sociale, da sempre misconosciuta, non retribuita, storicamente delegata alle donne, e più recentemente anche ai migranti, in particolare alle donne migranti.
Nell’essere costretti all’auto-reclusione abbiamo improvvisamente scoperto la centralità dell’attività di cura e l’indispensabilità del lavoro di mediche e medici, di infermiere e infermieri; delle badanti e dei badanti; delle maestre e dei maestri che, a distanza e spesso lasciati a se stessi, hanno cercato di dare continuità all’attività educativa delle bambine e dei bambini.
Abbiamo compreso l’essenzialità di lavori sino ad allora non considerati, come quello delle e dei riders per la consegna di cibo e medicine, o delle addette e addetti alla raccolta dei rifiuti. Sino a riscoprire la nostra stessa capacità di cura offerta a figlie e figli, a nipoti, anziane e anziani, disabili, anche promuovendo o partecipando ad iniziative autorganizzate di mutualismo dal basso, rivelatesi fondamentali per fasce di popolazione sole e abbandonate a se stesse.
Cosi, in un arco molto concentrato di tempo, si sono completamente ribaltate le gerarchie, rendendo evidente quanto sia reale la definizione di ‘bullshit jobs’ (lavori di merda), coniata dall’antropologo David Graeber1, in riferimento ad una serie di impieghi tanto valorizzati quanto assolutamente inutili. Non esiste persona che, durante la pandemia, abbia sentito la necessità di esperti di marketing, di consulenti bancari e finanziari, di accounting manager, di addetti alle pubbliche relazioni e via dicendo; eppure sono professioni ambite, in termini di retribuzione e di status sociale, mentre sono assolutamente sottopagati e spesso non riconosciuti tutti i lavori di cura e di manutenzione della vita e delle relazioni sociali.
Ecco perché la cura, sottratta dalla gabbia storicamente determinata che l’ha ridotta all’attività di assistenza delle persone fragili –e delegata alle donne- va liberata e rimessa al centro dell’orizzonte sociale, come atteggiamento generale del “prendersi cura di” e “prendersi cura con”, a cui finalizzare un modello sociale, ecologico, culturale e democratico radicalmente “altro”.
Beni comuni e servizi pubblici sotto attacco
Un modello sociale che parta dalla tutela dei beni comuni e dei servizi pubblici,da decenni messi a rischio dai tentativi di privatizzazione, fermati ma non interrotti dalla straordinaria esperienza del movimento per l’acqua che, nel giugno 2011, riuscì a coinvolgere la maggioranza assoluta del popolo italiano in un referendum che sancì da una parte il No alla privatizzazione dei servizi pubblici, dall’altra la considerazione dell’acqua come bene comune, la cui gestione andava sottratta al mercato e consegnata alla gestione partecipativa delle comunità locali.
Una decisione sovrana che tuttavia non è stata realizzata, se non da singole esperienze locali, come quella della città di Napoli, mentre i governi, di diverso colore ma di identica cultura politico-amministrativa, hanno cercato in tutti i modi di rilanciare l’espansione degli interessi finanziari su questo settore fondamentale della società.
Fino al più recente tentativo del governo Draghi, che, attraverso il Ddl Concorrenza, ha tentato il colpo definitivo. Un Ddl dove si affermava che la modalità di gestione ordinaria dei servizi pubblici da parte del Comune dovesse essere la messa sul mercato e che, laddove un ente locale avesse deciso di propendere per l’autoproduzione di un servizio, avrebbe dovuto sottoporsi ad una serie di procedure stringenti e vincolanti, fino a rendere impossibile la scelta.
Si trattava non solo di un rilancio in grande stile delle privatizzazioni, ma anche di una definitiva trasformazione della storica funzione pubblica e sociale dei Comuni, da garanti dei diritti fondamentali attraverso l’erogazione dei servizi pubblici a facilitatori dell’espansione degli interessi finanziari dentro le proprie comunità di riferimento.
Contro questo ennesimo tentativo di espropriazione di diritti e democrazia, si è creata una importante campagna di mobilitazione sociale, che ha coinvolto centinaia di realtà associative e di movimento, sindacali e politiche, ed è riuscita a far schierare contro il Ddl Concorrenza quattro Consigli Regionali, i Consigli Comunali di tutte le più grandi città e diverse decine di Comuni di media e piccola dimensione.
Il governo Draghi ha dovuto prendere atto e, per la prima volta, è stato costretto ad un significativo passo indietro: il testo relativo del Ddl Concorrenza è stato profondamente modificato, sino ad anestetizzare tutti i tentativi di proseguire sulla strada delle privatizzazioni.
Un passo importante perché ha dimostrato che quando la convergenza fra le soggettività di movimento funziona i risultati si possono raggiungere. Naturalmente, solo un primo passo di un percorso lungo, difficile e necessario per immaginare e costruire un’alternativa di società.
1 David Greaber, “Bullshit Jobs”, Garzanti, Milano 2018