Più la fine del mondo che la fine della differenza sociale

Riesco a immaginare più la fine del mondo sì / che la fine della differenza sociale (da Noi, Loro, Gli Altri, brano di Marracash)

Elena Mazzoni*

Nel saggio del 2009, Realismo Capitalista, unica sua opera tradotta in italiano prima del suo suicidio, avvenuto all’inizio del 2017, il sociologo-filosofo britannico Mark Fisher, citando il teorico marxista Fredric Jameson, affermava che “È più semplice immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” e lo faceva in un ragionamento ampio, che abbracciava tutta la cultura popolare della fine degli anni del secolo scorso, arrivando alla conclusione che, nel comune sentire, fosse avvertita come più probabile la cessazione del mondo, così come lo conosciamo, piuttosto che il cambiamento di quel paradigma economico e sociale che la crisi eco-sistemica l’aveva generata.

Se Fisher, con il suo acume brillante e la sua enorme sensibilità, potesse osservare il Mondo di oggi, quello che sta immobile di fronte ad un’Apocalisse annunciata che, tra meno di 10 anni, metterà a rischio la stessa sopravvivenza degli esseri umani, verificherebbe il rafforzamento di quel sentire nella popolazione.

La prima grande bugia

La prima grande bugia che si può raccontare sull’emergenza climatica è che non è colpa dell’essere umano.

La nostra, pur essendo una specie evolutasi molto di recente, 300 mila anni fa è stata in grado di modificare in poche migliaia di anni l’assetto del Pianeta, portando l’ecosistema ad un punto di non ritorno. L’impatto è stato così grande da indurre la comunità scientifica, da un ventennio circa, a coniare un nuovo termine Antropocene, per indicare appunto un periodo geologico caratterizzato dalle conseguenze irreparabili dell’attività umana.

A differenza di tutti gli stati geologici precedenti, quello in cui ha vissuto l’uomo sarà caratterizzato dalla persistenza di sostanze sintetiche e altamente inquinanti: si pensi, ad esempio, alle enormi distese di asfalto, alle isole di plastica in mezzo all’Oceano Atlantico, alle emissioni di CO2 e alla radioattività liberata con esplosioni e test nucleari, ai disastri di Chernobyl e Fukushima, alle petroliere in falla negli oceani, all’enorme inquinamento di vastissime falde acquifere, allo sbiancamento del 30% delle barriere coralline a causa del riscaldamento globale, con pesantissime ricadute su flora e fauna.

Tutto questo ha portato alcuni studiosi a parlare di una sesta estinzione, tutta particolare, sarebbe infatti la prima volta che un’unica specie, la nostra, ha alterato così profondamente l’ecosistema da danneggiarlo in maniera irreversibile: una specie che annienta sé stessa.

La seconda grande bugia

La seconda grande bugia sull’emergenza climatica è che tutti gli esseri umani ne sono responsabili in egual misura.

Come sosteneva Socrate: “Chi vuol muovere il mondo, prima muova se stesso”.

Bisogna comprendere che senza lo smantellamento del sistema capitalistico non si potrà mai tentare di invertire la rotta in maniera consistente.

Tutto ciò richiede un cambiamento radicale nell’egemonia politica ed economica.

L’intera struttura del sistema capitalistico va superata e sostituita da una società basata sull’eguaglianza sostanziale e sulla sostenibilità ecologica, saldando quella che Marx chiamava “frattura metabolica nel rapporto tra l’uomo e la terra”.

Nel terzo volume del Capitale, Marx presenta quella che, senza dubbio, costituisce la più radicale concezione di sostenibilità mai esposta, affermando che gli individui non sono proprietari della terra, e come ciò valga per tutte le persone in ogni parte del mondo.

Dunque, essa è stata loro affidata perché la conservino, o rendano addirittura migliore, per le future generazioni.

Pertanto, è certamente possibile, sulla base del materialismo storico, sviluppare una concezione rivoluzionaria di “sviluppo umano sostenibile” tale da essere radicalmente opposta allo “sviluppo sostenibile”, così come concepito dall’economia neoclassica. Sviluppo umano sostenibile, quindi, non va inteso nel senso di crescita economica sostenibile.

Sarebbe indubbiamente un errore fatale, per la sinistra, disarmarsi dal punto di vista intellettuale, abbandonando concetti come sostenibilità ed ecologia, nonché, eguaglianza, democrazia e libertà, semplicemente perché l’ideologia dominante se ne è appropriata distorcendoli in vario modo.

Noi dobbiamo combattere per delle prospettive che siano autonome.

Anche se il contrasto al cambiamento climatico ed al riscaldamento globale è la madre di tutte le sfide che dobbiamo affrontare, perché tiene dentro di sé elementi economici, sociali, politici, culturali, i pericoli che porta con sé appaiono astratti, sfuggenti, estranei alla vita quotidiana quando non narrati in modo contraddittorio, furbo, strumentale o di comodo.

Ogni ambientalista sa che tutte le mattine si sveglierà e dovrà affrontare la narrazione di moda del “blog X”, il negazionismo della destra che guarda a Trump, il green washing delle multinazionali che con una mano disboscano e con l’altra finanziano progetti di riforestazione e bioplastiche ma, soprattutto, i fanatici e le fanatiche dell’ambientalismo accusatorio e classista, quello borghese e radical chic della borraccia in bamboo e la macchina elettrica, che guarda con disprezzo l’operaio costretto ad andare a lavoro con la Punto diesel del 2005, in assenza di mobilità sostenibile, accessibile, di prossimità e pubblica.

Il punto di vista “di classe” è fondamentale per centrare correttamente la questione, definirne i confini, attribuire le responsabilità e sovvertire quella narrazione di comodo che punta a colpevolizzare i singoli, nascondendo e legittimando i reali autori del cambiamento climatico, propagandando soluzioni interne al sistema.

Il singolo viene portato a sentirsi responsabile di ciò che sta avvenendo e quindi viene spinto ad usare la borraccia, piuttosto che la bottiglia di plastica o ad andare in bicicletta, invece di prendere la macchina. In realtà l’azione del singolo, pur se importante, non è sufficiente come soluzione.

La retorica del “se tutti lo facessero” è una subdola forma di ipocrisia impostaci dal sistema, secondo la quale, il singolo fa la sua buona azione, “fa il suo”, scaricando la responsabilità sugli altri che dovrebbero fare lo stesso. Questa retorica è utopica: le buone azioni, per quanto buone, risultano sostanzialmente inutili se non accompagnate da una critica generale a questo sistema produttivo.

Non c’è ecologismo senza giustizia sociale, non c’è compatibilità tra liberismo e ambiente.

Le classi popolari non possono pagare tutti i costi, etici ed economici, della transizione. Non c’è transizione senza coinvolgimento popolare. La sproporzione tra il singolo e l’industria risulta evidente.

La multinazionale del settore oil Chevron dal 1965 al 2017 ha prodotto 53 miliardi di tonnellate di emissioni climalteranti, la Coca Cola produce 200.000 bottiglie al minuto, estraendo da tali attività inquinanti, oltre che dal lavoro, quel plusvalore che non redistribuiscono e che crea i loro immensi profitti.
L’allevamento intensivo, il commercio internazionale e gli impianti di raffreddamento sono le principali cause dell’aumento delle Co2, producono quindi un veleno che tutti noi dovremmo impegnarci a smaltire per “salvare” il pianeta.

Qual è la cura?

La svolta sembrava essere giunta con la Cop21 di Parigi nel 2015, nella quale, dopo decenni di negazionismo, grazie al lavoro dei movimenti ambientalisti e, purtroppo anche all’aumento esponenziale di catastrofi, era giunto un accordo in cui, i 190 Paesi presenti, si impegnavano a mettere in campo tutte le misure necessarie a mantenere l’aumento della temperatura terrestre sotto la soglia di 1,5°.

Ovviamente il tutto senza la previsione di alcuno strumento sanzionatorio ma, come dicevano i proclami del giorno di chiusura, la storia era segnata, la direzione presa e nessuno si sarebbe tirato indietro.

Ma neppure un anno dopo, a Marrakech, il primo a tirarsi indietro fu il re dei negazionisti climatici, Trump, sfilando gli USA dall’impegno preso, mentre la destra populista si saldava agli interessi economici dominanti, da Bolsonaro che eliminava ogni tutela per l’Amazzonia e le popolazioni indigene, agli “ambientalisti da salotto” di Salvini.

Dopo aver assistito al fallimento del G20 e della Cop26, ci chiediamo, attoniti, secondo i Paesi più industrializzati del Mondo, la cura quale sia. Il tutto mentre oggi Eni ripropone la sua geniale idea di decarbonizzazione: continuare ad emettere Co2, poi prelevarla dall’atmosfera e stoccarla sottoterra o sotto i fondali marini. Un progetto, talmente innovativo ed amico dell’ambiente, che non solo viene proposto nel PNRR, ma addirittura il Governo Draghi inserisce un articolo in legge di bilancio che consenta a questa follia di avere dei finanziamenti pubblici. Cure placebo per una malattia della quale si conosce la causa e la causa è il Capitalismo, il sistema di produzione che alimenta il fuoco che brucia il nostro Pianeta.

Dopo anni passati a cercare di spegnere il fuoco è necessario agire sulla causa e smentire chi fornisce false risposte, è la strada più difficile ma l’unica che costituisca realmente una soluzione. C’è una risposta che è stata sistematicamente occultata ma che ormai si sta rendendo di massa, e che deve trovare il modo di poter emergere e farsi reale.

Di fronte a questa distruzione deliberata e consapevole delle risorse e dei beni comuni, appoggiata da politici, grandi mezzi di informazione ed organizzazioni non esattamente “ambientaliste”, la prospettiva di classe si rivela indispensabile.

L’attualità e l’imprescindibilità della visione comunista dentro la lotta ambientale è racchiusa nella celebre affermazione, attribuita al sindacalista, politico ed ambientalista brasiliano, Chico Mendes, ovvero: “l’ambientalismo senza anticapitalismo è giardinaggio”.

E allora, ambientalismo e questione di classe, fine del mondo e superamento del capitalismo, sono chiaramente legati a doppio filo ed è sentimento popolare se proprio in questi giorni, nel “Paese Reale Italia 2021”, il miglior rapper della sua generazione, Fabio Bartolo Rizzo, in arte “Marracash”, uno cresciuto tra la Chinatown milanese, che mischia popolare e piccola borghesia, in una casa di ente, senza bagno e con una turca al piano, e la Barona, periferia pericolosa di bulli, droga e carcere, da una famiglia contadina di origini siciliane, che avrebbe ben poco da invidiare ai Malavoglia, viene a citare sia Fisher che Jameson cantando, nella traccia di apertura del suo nuovo album “Riesco a immaginare più la fine del mondo sì/Che la fine della differenza sociale”.


* Elena Mazzoni è giornalista pubblicista e responsabile nazionale ambiente del PRC/Sinistra Europea, attivista ambientale e membro del coordinamento nazionale della Campagna StopCETA.


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