Praticare l’intersezionalità: un metodo per la ricerca e per la trasformazione sociale. Intervista a Laura Corradi
Barbara Giovanna Bello* , Laura Scudieri**
Laura, sei tra le prime studiose in Italia a esserti occupata di intersezionalità in modo esplicito e i tuoi lavori sono un punto di riferimento importante per tante e tanti studiose/i e attivisti/e. Come ti sei avvicinata all’intersezionalità e perché ha catturato il tuo interesse?
Laura Corradi
Diciamo che me ne sono occupata prima in modo non esplicito negli anni ’80 – facendo ricerca in Italia sulla salute delle donne in fabbrica. Poi mi sono trasferita all’Università di California a Santa Cruz nel 1990 – un anno dopo la pubblicazione di Demarginalizing the Intersection of Race and Sex di Kimberlé Crenshaw – grazie a due borse di studio e ad un invito dell’eco-marxista James O’Connor. Ho scelto un dipartimento di Sociologia che aveva come centro di interesse quello che allora veniva chiamato Crossroad fra gender, race and class – ovvero una attenzione specifica all’incrocio, all’intersezione tra genere, razza e classe. Quello stesso anno Patricia Hills Collins pubblicava il suo importantissimo Black Feminist Thought che proponeva in maniera conflagrante – sia nell’ambito accademico che nell’attivismo – alcuni nuovi concetti.
In particolare quello dell’outsider within ovvero la posizione della donna nera, le cui istanze non sono contemplate né dal femminismo bianco né dal pensiero politico nero: una doppia esclusione che non aveva ancora trovato posto nel dibattito globale su sessismo e razzismo. Patricia sottolinea la necessità di intersecare le due oppressioni a cui poi si sono aggiunte le altre: classe, sessualità, religione, colore, età, cultura, diverse abilità, status… e man mano tutte quelle differenze (in dotazione o acquisite) che nella realtà sociale sono anche vettori di dolorose disuguaglianze e discriminazioni. Angela Davis – arrivata a Santa Cruz un paio d’anni dopo, invitata da Teresa De Lauretis – le avrebbe chiamate interlocking categories of oppression – a rimarcare come queste categorie dell’oppressione (per la sociologia mainstream solo “variabili”) fossero profondamente interconnesse. Angela sempre sottolineava come non vi fosse una gerarchia tra esse – entrando così in frizione con una parte della vecchia scuola marxista statunitense che attribuiva all’oppressione di classe un primato assoluto e irrevocabile.
In quegli anni erano a Santa Cruz anche le bellissime Gloria Anzaldua e Cherrie Moraga, che nei loro lavori hanno squarciato il velo del silenzio sul rapporto tra patriarcato, colonialismo ed eteronormatività – in un ambito che per decenni aveva guardato alla condizione delle persone Latinas solo dal punto di vista dello status migrante, del reddito e della condizione abitativa – questioni certamente enormi. Ma nel dibattito intellettuale e politico di trent’anni fa non si considerava la simultaneità di altre oppressioni, non meno dolorose, di sessismo e violenza contro le donne nelle comunità, di abilismo, omo-bi-lesbo-trans-fobia e inferiorizzazione culturale – specie per le campesinas e le indigene, portatrici di saperi non riconosciuti come tali…. Quindi, per rispondere alla vostra domanda, l’approccio intersezionale ha catturato il mio interesse da una parte perché il lavoro di ricerca già fatto negli anni ’80, pubblicato in Italia mentre ero in California (Corradi 1991), riguardava una importante intersezione fra genere e classe: la vita quotidiana e la salute delle operaie, turniste di notte alla Barilla. Il secondo motivo è mi sono trovata ad insegnare e fare il dottorato nel cuore pulsante delle teorizzazioni sulla intersezionalità, a contatto con le persone chiave di questo approccio, in tutte le sue declinazioni iniziali, compresa quella Lgbt.
Anche la teoria Queer, infatti nasce a Santa Cruz nel 1990, con un discorso provocatorio – poi divenuto un saggio importante – di Teresa de Lauretis (ex direttrice del dipartimento di History of Consciousness) che propose una riflessione sul termine Queer: un insulto da rivendicare – utilizzato poi anche come ombrello sovversivo per la grande galassia Lgbt+… Una sfida che ho recepito subito come importante anche perché rende possibili alleanze con chiunque rifiuti l’eteronorma – anche persone eterosessuali – distanziando così i tentativi di ghettizzazione nel perdente cul de sac delle “minoranze sessuali”. Mi ha subito convinta anche il percorso di risignificazione degli insulti “Queer” per primo, e poi di altri come “Dyke” e “Faggot”… anche nel bisexual activism (Corradi 1992, 2010, 2018) la rivista che facevamo nella Bay Area si chiamava “Anything That Moves” e si fondava su una risignificazione dello stereotipo volgare che colpiva le persone bisessuali: “a voi piace qualsiasi cosa che si muova”… In termini lacaniani ho letto questo ribaltamento semiotico come una inversione del significante dispotico che mi ha ispirata successivamente nella riappropriazione politica di altri segni – come le manifestazioni a seno nudo delle donne mastectomizzate davanti alle multinazionali inquinatrici, di cui narro in “Nuove Amazzoni” (2004).
La risignificazione di Teresa de Lauretis mi ha ispirata nella sovversione di altri termini – negli ultimi anni la parola ‘Zingara’, che ho scelto di utilizzare nella traduzione italiana di una monografia precedentemente pubblicata con Routledge a Londra col titolo Gypsy Feminism. Intersectionality, Alliances, Gender and Queer Activism (Corradi 2018) – che ha avuto un piccolo ruolo nel tracciare alcune connessioni tra le Rom dell’est europeo, le Traveller di Regno Unito e Irlanda, e le gitane della penisola Iberica – ma anche gruppi zingari altrove – al di là delle barriere linguistiche, usando l’inglese come “lingua franca”. Poi la parola ‘Zingare’, sovvertita dall’interno, è stata oggetto di un lemma che ho pubblicato nel Lessico della crisi e delle possibilità prodotto con una quarantina di colleghi/e/u che hanno risignificato o diversamente elaborato un centinaio di termini. Nella stessa collettanea ho sintetizzato il concetto di “Intersezionalità”, la relazione “Corpo-Salute-Ambiente” e la differenza tra “Decoloniale” e “Postcoloniale”.
Laura Scudieri
Come descriveresti il percorso di studio e di ricerca che ti ha portato a maturare le riflessioni contenute nei tuoi testi? Quali sono i principali nodi tematici e questioni che affronti e quale differenza fa, per te, adottare l’intersezionalità con riferimento a questi temi?
Laura Corradi
Come ho accennato, il mio lavoro si è collocato fin dall’inizio nell’intersezione fra genere e classe – una situatezza che partiva dal mio corpo di operaia in catena alimentare e dalla consapevolezza diffusa negli anni ’70 che fosse possibile cambiare tutto… È chiaro che quando sono arrivata in California i contributi femministi – in particolare delle intellettuali chicanxs (come Lourdes Beneria e Marta Roldan, autrici di The Crossroads of Class and Gender (1987) e altre che in lingua coloniale venivano ancora definite come “ispaniche” – rappresentavano una fonte di ispirazione forte, anche perché si esprimevano in una lingua a me più amica dell’inglese – una vera ancora di salvezza, insieme ai pochi momenti che potevo passare con Teresa e parlare italiano… Le teorie e le esperienze delle chicanxs mi spiegavano anche le ragioni del disagio sentito già negli anni ’80 nei confronti di un femminismo interclassista e accademico che assorellava le donne senza affrontarne le disuguaglianze, quelle economiche, di status, educazione… E anche il malessere e le difficoltà che incontravo come migrante che parlava un broken english – e come donna il cui aspetto non era certamente quello di una Wasp… “you belong to an aggressive ethnic group”, mi disse un giorno una collega di Stanford, motivando la sua esitazione nell’invitarmi alla cena di Natale. Gli/le italiane erano ‘people of color’ per l’Immigration and Naturalization Office e non solo (Corradi Italian Women, Women of Color 1997).
Mi rendo conto che i sette anni in cui ho svolto ricerca ed insegnato alla University of California – materie universitarie che in Italia non esistevano e purtroppo non esistono ancora, quali Feminist Theory e Sociology of Sexualities – dovrebbero essere oggetto di una riflessione approfondita in altra sede: da più parti mi è stato richiesto di produrre un “manuale” di intersezionalità. La prima persona a farlo è stata proprio la meravigliosa Liana Borghi, che non è più con noi, e quando mi sarà possibile accoglierò la sua sollecitazione. Spero qualcunəmi aiuti – devo trovare una formula comunicativa adeguata perché mi sento come un archivio di quella ricca esperienza che un po’ alla volta è diventata patrimonio comune anche in Europa, anche nel nostro paese – ma più in senso nozionistico, che nel senso pratico: invece si tratta di concetti/attrezzi che possono “smantellare la casa del padrone” per dirla con bell hooks… Così vivo un po’ questo imbarazzo: sentire parlare di cose che appartengono profondamente al mio vissuto senza che ciò corrisponda ad un impegno intersezionale politico e di ricerca-azione; per non dire dell’università dove si usa il termine spesso a casaccio, ove manca una applicazione almeno metodologica, ma si vuole utilizzare il termine per emulazione, perché è diventato di moda…
Per me – sociologa del corpo ed eco-femminista – l’approccio intersezionale ha fatto una grande differenza, a partire da salute, ambiente e prevenzione, in tutti gli ambiti di ricerca che ho attraversato. E nella didattica mi ha aiutata a stabilire una relazione autentica con gli/le studenti, basata sulla comprensione delle nostre differenze – dalle quali possiamo partire per guardare sociologicamente quelle del mondo intorno a noi – le scienze sociali non sono neutrali – forse anche per questo l’insegnamento è apprezzato nelle valutazioni, ed è stato difeso quando era a rischio di cancellazione…
Barbara Giovanna Bello
Una difficoltà in cui oggi ci si dibatte è “come fare intersezionalità”: puoi raccontarci come intendi oggi l’intersezionalità (come dispositivo, come teoria, paradigma di ricerca o altro)? La tua visione è cambiata nel tempo e, in tal caso, in che modo? Più specificamente, quali sono le modalità per operativizzare l’intersezionalità nella ricerca empirica?
Laura Corradi
Per me l’intersezionalità in questi oltre 30 anni è stata soprattutto due cose: un metodo di ricerca-azione partecipata, orientata all’utilità sociale, e un dispositivo per creare alleanze tra diversi gruppi e movimenti. Su questo ho scritto recentemente sia saggi che articoli anche divulgativi – come quelli pubblicati da Jacobin – Italia[i] e altre riviste. L’approccio intersezionale è sempre stato un tema importante nei corsi che ho insegnato come lecturer oltreoceano da “Feminist Theory” a “Sociology of Sexualities”, ma anche dal 2000 in poi “Studi di Genere” e “Studi sulla Costruzione Sociale delle Differenze di Genere”, che ho tenuto nell’università italiana negli ultimi decenni. Invece, come metodo, lo insegno dal 2012 in un corso specifico di “Studi di Genere e Metodo Intersezionale”.
Ho proposto questo approccio fin dal mio rientro in Italia nel 1996, a più riprese, sia in una università del nord che in una del sud, dove si era formato interesse sugli studi delle donne. Al nord, durante l’organizzazione di un convegno su donne e lavoro, proposi un’apertura alle tematiche e alle problematiche espresse dalle lavoratrici di colore e dalle donne migranti che erano già visibilmente numerose – avevo contatti con le loro associazioni e con attiviste in asilo politico dall’Iran alla Nigeria – ma non ne fu vista la necessità: la questione venne percepita come una indesiderata complicazione. Nell’università del sud, invece, chiesi che venissero contemplate anche le tematiche Lgbt: “Ma dobbiamo già occuparci delle donne, non possiamo fare anche questo!” – fu la risposta. È evidente che in questo quarto di secolo alcune cose sono cambiate – da approccio sconosciuto, dopo il posizionamento (solo “teorico”) di istituzione europee contro le discriminazioni multiple, l’intersezionalità è diventata quasi di moda, oserei dire che è in parte entrata nel mainstream – pur restando abbastanza sconosciuta nella sua applicazione. Penso alle critiche puntuali poste dalle femministe Rom (nel testo Missing Intersectionalitye dopo quasi un decennio nel saggio Still Missing Intersectionality – lavori che cito in Il Femminismo delle Zingare – le quali hanno reagito nei confronti dei documenti delle istituzioni europee, che dopo aver preso posizione contro la multiple discrimination, hanno fallito nell’applicazione di un metodo intersezionale, dichiarando di voler praticare un approccio intersezionale ma senza farlo in maniera compiuta.
Quello che insegno nel corso di “Studi di Genere e Metodo Intersezionale” ha a che vedere con la considerazione simultanea di 9 categorie dell’oppressione – nelle quali ho addensato alcune articolazioni. Fin dalla prima lezione consideriamo la situatezza dei saperi che ci vengono imposti come neutrali – e anche la situatezza delle nostre conoscenze. Quindi impariamo a posizionarci nel cross-road, nell’incontro/scontro delle diversità che ci attraversano, con un focus sui nostri privilegi e oppressioni. Partire da sé – antica proposta politica femminista – è ancora il modo più istantaneo per comunicare su questi temi… Poi passiamo all’analisi di studi intersezionali, a caccia di cosa manca e di cosa ci ispira – prima di provare ad applicare il metodo nei temi attorno ai quali si concentra l’attenzione delle/degli studenti.
Infine, devo dire che no: la mia visione nel tempo non è “cambiata”, si è complessificata, arricchita, di idee e temi nuovi ma anche di spunti critici. Penso, per esempio, che l’intersezionalità debba fare i conti con le teorie e le pratiche decoloniali in maniera più stringente. Da circa vent’anni, all’Università della Calabria, parallelamente al mio corso, funziona una struttura che si chiama “Lab Decoloniale, Femminista e Queer” (da cui è nata anche la prima Gypsy Summer School: una scuola estiva residenziale per potenziare “Attivismo, Leadership e Culture Romanì”). Inizialmente avevamo tre attività laboratoriali distinte – gli/le studenti provenienti da ex-colonie si attivavano solitamente nel primo, sulla decolonialità, le giovani nel secondo sul femminismo (ma erano quasi tutte bianche) e gli/le studenti Lgbt+ nel terzo, sulle tematiche Queer – quindi è stato importante mettere le attività laboratoriali in sinergia, farle lavorare insieme. Hanno bisogno ognuna delle altre, per essere capite: come sosteneva la grande Kum Kum Bhavani, senza la critica decoloniale, anche il Queer diventa una moda… E lo stesso si può dire dell’approccio intersezionale: se non lo attraversiamo con pratiche decoloniali può essere dirottato e svilito. Poi va detto per onestà che ogni metodo ha un limite, e in contesti indigeni ho provato ad indagare anche quelli dell’intersezionalità[ii].
Laura Scudieri
Alcune autrici (come, per esempio, Sirma Bilge) esprimono la preoccupazione che l’istituzionalizzazione dell’intersezionalità possa depoliticizzarla e, quindi, affievolirne l’uso consapevole e indebolire il suo portato trasformativo. Qual è il tuo pensiero al riguardo?
Laura Corradi
Sirma Bilge si era già espressa in passato sullo “sbiancamento”, sul “candeggiamento” degli studi intersezionali in due saggi appunto Whitening Intersectionality e Bleaching Intersectionality dove denunciava le prime manovre di depoliticizzazione: dopo tanta indifferenza l’accademia ha iniziato a fagocitare anche questo boccone indigesto… Poi ha scritto un libro con Patricia Hill Collins dal titolo Intersectionality (2016). Nel corso del loro lavoro viene mantenuta una tensione dialettica tra teoria/metodo di ricerca e prassi sociale, perché i tentativi di scorporamento e sussunzione dei contenuti sono sempre in agguato – come sosteniamo anche ne Il silenzio della terra. Sociologia Postcoloniale, realtà aborigene e l’importanza del luogo la sociologa trans-femminista australiana Raewyn Connell ed io. Infatti, è in corso una forma di addomesticamento dei saperi sovversivi: parte dall’idea che sia possibile usare le categorie dell’intersezionalità nella ricerca, semplicemente appropriandosi della terminologia, magari considerando qualche incrocio, ma omettendo quella autoriflessione critica e quell’impegno politico-sociale che sta alla base dell’approccio intersezionale. Sui rischi dell’istituzionalizzazione, e dell’appropriazione culturale, il dibattito è stato vibrante tra intellettuali indigene di diversi continenti, già durante la fase dei Social Forum contro la globalizzazione neoliberista – dove migliaia di persone studiose e attiviste da tutto il mondo si incontravano per comunicare saperi ed esperienze che riguardavano tutte le disuguaglianze e soprattutto per immaginare, inventare soluzioni collettive. A fine anni ’90 producevamo anche un giornale ‘Social Press’ dove curavo la Rubrica “classe/genere/etnia”.
Il mio pensiero riguardo l’addomesticamento istituzionale – visto che me lo chiedete – è che tale rischio vada contrastato in due modi. Il primo riguarda il rafforzamento dei rapporti politici e di ricerca con coloro che – ancora in molta scienza sociale – vengono definiti/e in maniera coloniale come “oggetti di ricerca”. Quindi si tratta di sovvertire una serie di ruoli, metodi, procedure, e finalità della ricerca, liberando nel contempo spazi non gerarchici nelle nostre accademie ed intensificando lo scambio orizzontale dentro/fuori… Il secondo modo per contrastare il rischio di cooptazione delle soggettività e di sussunzione/addomesticamento delle nostre idee – vanificando il loro impatto trasformativo – è che il nostro lavoro intellettuale come scienziate/attiviste divenga più collettivo e più collaborativo: al momento lavoriamo ancora, in larga misura, ognuna nel suo campo. Per poter moltiplicare i corsi di “Metodo Intersezionale” dovremmo anche portare avanti una battaglia per il riconoscimento nell’università italiana degli “Studi di genere e sessualità” come settore interdisciplinare importante, costretto a soffrire di marginalizzazione: per esempio, nelle scienze sociali rappresentiamo una delle troppe porzioncine della Sociologia Generale – un settore molto ampio e ancora reticente ad offrire chances alla ormai vecchia novità rappresentata dagli Studi di Genere… Inoltre, nell’università italiana, come studiosi/e sia precari/e che strutturati/e di materie che riguardano Genere, Sessualità, Intersezionalità, ci troviamo sparpagliati/e in tante discipline diverse, e soffriamo anche di una certa frammentazione, come la recente ricerca della rete GIFTS ha messo in luce nel suo Report[iii]. Ciò significa che, anche se siamo tante/i/u, non possiamo contare accademicamente sulla nostra forza: rappresentiamo un considerevole campo di studi, ricerca e didattica, sul quale c’è un crescente interesse studentesco – per cui dovremmo ottenere risorse adeguate, per la nostra dignità e nell’interesse generale della missione educativa della nostra Università.
Barbara Giovanna Bello
Nei tuoi lavori hai dato molto spazio alle pratiche dei movimenti: in che modo l’intersezionalità è “praticata” nei movimenti di cui ti sei occupata o che conosci?
Laura Corradi
Penso che nel nostro paese l’intersezionalità come prassi politica, come base di alleanze e coalizioni sociali sia ancora poco conosciuta e ancor meno praticata – quindi mi fa molto piacere quando ciò avviene: come nella lotta operaia della GKN a Firenze dove si parla anche di sessismo, omofobia e razzismo; oppure quando in una occupazione eco-trans-femminista (penso alla Laboratoria Femminista Autogestita intitolata a Berta Caceres alla Caffarella a Roma) vengono messe al centro dell’iniziativa le diverse categorie dell’oppressione in maniera esplicitamente intersezionale. Nei decenni passati sono nate esperienze editoriali che hanno preso seriamente in considerazione l’intersezionalità, tra cui la collana dei Quaderni Viola diretta da Lidia Cirillo (edizioni Alegre) e la collana Sessismo&Razzismo, coordinata da Lea Melandri, Isabella Peretti, Ambra Pirri e Stefania Vulterini (casa Editrice Ediesse).
Alcune ricercatrici da metà anni 2000 in poi hanno iniziato a considerare l’intersezionalità come approccio teorico: Vincenza Perilli, Jamila Mascat, Chiara Bonfiglioli, Barbara Giovanna Bello, Sara Farris, Sonia Sabelli, Veruska Bellistri (che ha tradotto uno dei documenti fondativi), Gaia Giuliani, Sandra Kyeremeh, Marie Moise (che ha tradotto Angela Davis) e, più di recente in Italia, Maria Giulia Bernardini e Paola Parolari. Per molte la postura femminista intersezionale e/o decoloniale ha rappresentato una prospettiva di “precariato a vita”, o di esilio presso istituzioni all’estero. Penso anche ad esperienze intersezionali di successo come il progetto Empow-air della Fondazione Brodolini, e più recentemente Dom-Equal coordinato da Sabina Marchetti, le ricerche in Brasile di Valeria Ribeiro Corossacz, quelle di Renata Pepicelli e Laura Scudieri su vari femminismi islamici e sul Queer nell’Islam… E vedo la presenza nel dibattito dei libri di autrici quali Grada Kilomba, Igiaba Scego e Mackda Ghebremariam Tesfaù (quest’ultima ha preso la parola su un tema scottante quale la necessità di decolonizzare l’antirazzismo) come un indicatore di maggiore attenzione fra studiose, attiviste, e nei movimenti antirazzisti, rispetto alle diversità e alle loro intersezioni.
C’è un aspetto politico della ricerca intersezionale, ovvero l’intento di sovvertire vecchi modi di fare ricerca, di concettualizzare differenze e disuguaglianze, e non può essere relegato a università e istituti di ricerca, ma diventare una pratica di gruppi extramurali che vogliono produrre conoscenze contro-egemoniche – dalla epidemiologia popolare all’arte, alle situazioni di ricerca-azione partecipata nei posti di lavoro e nel territorio.
Per quel che riguarda la mia esperienza empirica mi limiterei a menzionare una ricerca decennale di “Sociologia del corpo” (2001-2011) in parte pubblicata nel libro “Specchio delle sue brame. Classe, razza, genere, età ed eterosessismo nelle pubblicità” dove analizziamo le immagini che ogni giorno diluviano su di noi da tv, giornali e Internet. Abbiamo proposto una lettura critica, socio-politica, con il supporto della semiotica femminista, evidenziando classismo, razzismo, etero-sessismo, fino a ageism e abilismo. Devo dire che, sebbene quest’ultimo aspetto sia stato trattato en passant nel nostro testo, due riviste di persone disabili lo hanno recensito tessendone le lodi in quanto unico contributo che al momento menzionava tra differenze e disuguaglianze anche tale asse dell’oppressione: l’inferiorizzazione delle persone disabili nell’immaginario collettivo.
Anche in passato, nei movimenti per la salute e per l’ambiente (Corradi 1995; 2004; 2007; 2009) si è praticata l’intersezionalità seppure a tratti o in maniera incompleta, oggi le nuove proposte vanno in questo senso: per esempio è diventato di uso comune il concetto di “razzismo ambientale” coniato dall’amico Bob Bullard (studioso/attivista Afro-americano, ordinario di sociologia ad Ucla, si licenzò per andare a fare ricerca/azione nelle comunità nere dopo l’uragano Kathrina). La sua idea di giustizia ambientale, seppur concepita nella Black Belt, ha retro-agito sulle ricerche e sulle lotte in corso un po’ ovunque dal nord al sud America, dall’India alla Calabria, sì anche qui nella pre-Sila deturpata dal discarico abusivo di rifiuti di ogni tipo, si è guardato al razzismo ambientale vista la provenienza dei rifiuti e il ruolo delle eco-mafie… Tali attraversamenti sono sociologicamente e politicamente interessanti, e lo sarebbe anche studiare i modi in cui l’approccio intersezionale in questi ultimi 15 anni abbia progressivamente trovato spazio nelle ricerche di molte studiose/i, e nel movimento femminista anche in Italia, attraverso quali vettrici stia influenzando le pratiche politiche di alleanza, per esempio.
Laura Scudieri
Quali sono le autrici e gli autori cui si ispira maggiormente il tuo pensiero sull’intersezionalità?
Laura Corradi
Alcuni riferimenti generali sulle autrici a cui mi sono ispirata oltreoceano li ho già menzionati nelle risposte precedenti, molti altri su temi specifici si trovano nelle bibliografie dei libri e dei saggi che ho pubblicato in questi tre decenni. Mi rendo conto si tratta di una produzione abbastanza vasta – che non è servita a fare carriera, anzi! Nella mia ultima bocciatura come professore, veniva menzionato il fatto che sono un’eco-femminista, dedita alla ricerca-azione e pertanto non neutrale – che mi colloco contro l’ideologia neoliberista e il “dominio maschile, bianco, giovanilistico e capitalistico (…) come un blocco unico da rigettare senza troppi rimpianti”. Quando sei una femminista intersezionale non importa se hai prodotto decine di ricerche, pubblicato libri e saggi, anche con editori importanti, anche tradotti in altre lingue, non importano i riconoscimenti internazionali – tra cui essere eletta Rappresentante degli Studi su “Women in Society” per l’Europa (Isa 2010-2014), oppure fare parte del direttivo Unesco per Gender Equality e Women’s Empowerment (dal 2017 ad oggi), che significa ricerca di buon livello, con mappature intersezionali. Sei comunque considerata una outsider e la tua produzione scientifica sottovalutata. Inoltre, rispetto ad altre università dove ho insegnato, dalla California all’India, nel nostro paese c’è una accademia un po’ feudale, dove gli ordinari si occupano di riprodurre sé stessi attraverso i loro allievi, tendono a promuovere l’obbedienza, e detengono il controllo sul reclutamento (altrove non è così, la decisione è collegiale inclusi gli/le studenti di dottorato, non è appannaggio degli ordinari). In Italia ho sentito molta ostilità nei miei confronti, nei confronti delle mie idee: in questo senso, l’invisibilizzazione degli studi intersezionali in Italia per un quarto di secolo è in parte anche collegata alla mia biografia. Inoltre va ammesso che se da precaria dici di no ad un uomo che ha potere su di te, questo diventa un incidente che cambia drammaticamente il corso della tua vita accademica, e di conseguenza influenza in maniera negativa quello delle tue allieve.
Ho trovato estremamente difficile proporre un nuovo paradigma – che sovverte le gerarchie nella ricerca sulle disuguaglianze – da una posizione molto marginale: quante autrici intersezionali avremmo potuto tradurre nella seconda metà degli anni ’90? e quale impatto avrebbero potuto avere nel dibattito fra le studiose femministe e all’interno delle scienze sociali? Eppure credo ancora che sia meglio abitare un margine coerente piuttosto che fare compromessi… By the way, per chi volesse è possibile scaricare gratuitamente molte delle mie pubblicazioni in un blog/repository: bodypolitics.noblogs.org, non lo aggiorno di frequente ma si trova quasi tutto.
Barbara Giovanna Bello
Oggi l’intersezionalità è entrata nel dibattito multidisciplinare italiano: quali consigli daresti a chi si accosta all’intersezionalità?
Laura Corradi
Innanzitutto va detto che l’intersezionalità ha coinvolto prima gli ambiti di attivismo e molto dopo l’università italiana – ove talvolta mi pare che le idee entrino dalla porta sbagliata: quella del rincorrere in ritardo l’ennesima tendenza del momento nel dibattito anglofono (o francofono). Persone che non hanno mai utilizzato l’approccio intersezionale nei loro lavori passati, improvvisamente ne fanno oggetto di incontri dove emerge in maniera imbarazzante quanto recente sia l’interesse – anche chi lo ha apertamente osteggiato ora lo plaude senza fare un minimo di autocritica, prendendo lo spazio pubblico da dedicare alle attività di auto-formazione su questo approccio. Questo non è un comportamento eticamente apprezzabile, per chi vuole davvero produrre conoscenza utile, e dà un cattivo esempio alle giovani leve, che imparano come ci si possa autoproclamare esperti/e di un tema in voga, grazie ad un privilegio, una “rendita di posizione” accademica. Dalla totale invisibilità alla moda, ora il rischio è che nascano corsi o testi “intersezionali” che si ispirano solo a fonti secondarie, senza considerare in alcun modo la carica autoriflessiva e trasformativa di questo approccio nella ricerca. Tempo fa gli/le studenti dell’Università di Firenze hanno fatto una colletta e mi hanno pagato il viaggio perché facessi loro un seminario sul metodo intersezionale, lamentando che nessun/a docente lo insegnasse e solo un paio lo menzionano nei loro corsi, in un contesto di scienze sociali dove avrebbe potuto essere utile…
Quindi il mio consiglio a chi ha interesse nell’intersezionalità è di esprimerlo a due livelli: il primo nell’auto-organizzazione in Gruppi di Studio e di Ricerca-Azione, a partire da esperienze già presenti – anche nel nostro paese, seppur embrionali – con la consapevolezza che non basta nominarsi intersezionali per esserlo, occorre studiare collettivamente e praticare politicamente. Il secondo livello riguarda la pressione sulle istituzioni educative affinché prevedano l’insegnamento degli Studi di Genere/Sessualità e del Metodo Intersezionale. Ma questa è una strada lunga ed irta di ostacoli, se pensiamo che in Italia non abbiamo ancora il riconoscimento come Settore Scientifico Inter-Disciplinare, nonostante l’accresciuto interesse studentesco in queste materie – il mio corso resiste, ma è una materia che era “caratterizzante” e negli ultimi 10 anni è diventata “opzionale” – se non ci saranno altre ad insegnarlo dopo di me…
Siamo in grave ritardo nonostante vi sia bisogno di studi di genere e intersezionali nelle nostre società: soffriamo più di altri paesi per violenza fisica e sessuale nei confronti delle donne, femminicidi, homo-lesbo-bi-trans-fobia (dagli hate-crime ai suicidi). Per l’educazione sessuale i/le nostre giovani devono rivolgersi a Neflix – in un clima ove parlare di alcune tematiche sessuali è da “caccia alle streghe” (fenomeno che non è “medioevale” – come sottolinea Silvia Federici – ma nasce molto prima, col patriarcato e solo con la fine di esso potrà estinguersi). C’è un clima di attacco costante alla c.d. teoria gender ed altre invenzioni ridicole del fronte oscurantista che unisce la nuova destra al vecchio bigottismo.
La nostra società soffre anche di ageism – diventare vecchie è quasi una colpa – ed è affetta da un classismo tanto pernicioso quanto invisibile. Per non parlare di anti-zingarismo, antisemitismo e di vari razzismi specifici. Vorrei menzionare su questo il lavoro di una femminista intersezionale che ho sempre trovato splendida Gloria Wekker – la conobbi a Santa Cruz a metà anni ’90 quando era ospite a casa di Angela Davis, è stata l’unica docente nera dell’università olandese – consiglio di leggere il suo magistrale White Innocence che non trovo mai citato perché non è ancora stato tradotto in italiano, e se qualcuna fosse interessata potremmo costituire un team di traduzione: c’è una enormità di saperi per nutrire la nostra teoria/metodologia/ricerca/azione.
Laura Scudieri
Guardando al futuro quali linea di ricerca trascurate o inesplorate consideri fruttuose per l’intersezionalità?
Laura Corradi
Penso che tutti gli ambiti di ricerca sociale e interdisciplinare – dalla salute alla sessualità, dal lavoro all’arte – nell’accademia e fuori da essa, possano fruttuosamente assumere un metodo intersezionale, autoriflessivo e inclusivo – indipendentemente dal tema specifico della ricerca. Con alcune colleghe stiamo lavorando alla creazione di un corso di genere trasversale rispetto ai dipartimenti, a cui possano accedere gli/le studenti di tutto l’Ateneo, da Economia al Dams, da Storia a Ingegneria, da Chimica a Fisica da Scienze Umane e dell’Educazione a Filosofia: il genere e le altre disuguaglianze non sono di pertinenza esclusiva delle Scienze Politiche e Sociali…
Vorrei ribadire che è necessario abbinare l’intersezionalità ad un approccio decoloniale per mettere in discussione profondamente i presupposti bianchi delle nostre conoscenze, l’eurocentrismo epistemologico, la supremazia occidentale nella gerarchia geopolitica dei saperi – nello stesso modo in cui la teoria Queerin passato è riuscita a scardinare profondamente alcune categorie del binarismo di genere e della eteronorma. La sociologia italiana ha già mancato in passato l’appuntamento con il pensiero femminista, tollerandolo marginalmente, evitando di mettersi in discussione e ripensarsi al fuori di ben radicate dinamiche patriarcali. Riuscirà ad aprirsi alla sfida intersezionale?
Forse sì – i governi di destra che abbiamo di fronte potrebbero sollecitare l’armonia, l’accordo del nostro agire nell’ambito scholar/activism, con le aree LgbtQ+, femministe e transfemministe – trovando proposte che puntino ai minimi comuni denominatori, a ciò che ci unisce. Inoltre, un contesto politicamente più ostile nel nostro paese potrebbe persino smuovere quel moderatismo accademico che ha tenuto fuori dall’università o fuori dai confini nazionali tante persone competenti per dissidenza sessuale o di genere, o perché portatrici di saperi altri, o per motivi economici legati a un precariato troppo lungo e ingiusto. La mia ultima busta paga di lavoratrice salariata è del 1982 – dopo per vent’anni ho studiato, e fatto ricerca come precaria: il primo assegno firmato da Laura Balbo è del 1985, lo conservo ancora. Ho lavorato all’estero, e poi in Italia vivendo in un camper, perché con la docenza a contratto non puoi permetterti di pagare un affitto, nemmeno se accetti di insegnare corsi in tutta la penisola, da Trieste a Modica di Ragusa. In questi giorni, dopo 10 anni di ricorsi al Tar, ho preso servizio come professore associata. Non festeggerò.
Per decenni ho visto invisibilizzati i lavori di chi stava portando innovazione nell’università ma non faceva compromessi e non abbassava la testa. Così alcune prospettive di ricerca, come quella intersezionale, sono sopravvissute a stento – risultando colpevolmente missing dall’arena del dibattito sociologico ‘che conta’, pur trattandosi di temi considerati fondamentali nelle istituzioni accademiche di altri paesi. Chissà se ora ci sarà qualche ripensamento, nel mondo di sopra, dopo tanto egoismo, e rincorsa degli interessi personali, ‘filiali’ o di cordata. Non basterà battersi il petto – qualcuno ha già cominciato a farlo, segno che le scienze sociali stanno marciando verso provvedimenti di accorpamento che ne garantiranno una sempre maggiore marginalità. Per cui non basta dire “abbiamo sbagliato”, “abbiamo pensato solo al nostro orticello ma ora è il momento di cambiare”… Sono necessari atti concreti di autocritica, che vadano nella direzione di democratizzare radicalmente l’università a partire dal reclutamento, includendo soggettività finora assenti, ignorate, demonizzate, ridicolizzate, respinte (per appartenenze di classe o etnia, per diversità di genere, sessualità, aspetto, abilità, religione…).
Tali trasformazioni non sono possibili cooptando i soggetti, usando gli stessi meccanismi del passato – trattandoli/e come dei token, delle eccezioni accettabili, isolandoli dalle loro comunità per poi istituzionalizzarli/e, normalizzarli/e – ma rispettando le differenze in senso collettivo, prevedendo dei curricula dedicati, come abbiamo fatto nel gruppo di Angela Davis, nel Women of Color Research Cluster, partendo dai bisogni delle donne di colore, per ripensare il tutto. Parlo di un’offerta formativa davvero aperta e interdisciplinare, ove gli studi di genere/sessualità e intersezionali abbiano il posto che da tempo meritano (e non solo nelle scienze sociali).
* University of Viterbo “Tuscia”, Italy
** University of Genoa, Italy
– “Alleanze intersezionali nel carcere di Soledad. Dall’esperienza di attivismo e insegnamento in carcere, lo studioso afro-nativo-americano John Brown Childs propone il concetto di trans-community per superare i conflitti tra comunità razzializzate attraverso l’autoformazione”, in Jacobin-Italia, gennaio 2021 – https://jacobinitalia.it/alleanze-intersezionali-nel-carcere-di-soledad/; “Politiche indigene e alleanze intersezionali. Le tradizionali pratiche indigene nella costruzione di mediazioni interne alle comunità ci sono utili oggi per provare a costruire alleanze intersezionali”,in Jacobin-Italia, febbraio 2021 –https://jacobinitalia.it/politiche-indigene-e-alleanze-intersezionali/; “Come costruire coalizioni intersezionali. Sappiamo quanto i conflitti interni indeboliscono i movimenti, fanno arretrare le lotte e rendono più vulnerabili alla repressione. Per formare alleanze intersezionali efficaci occorre saper lavorare sui minimi comuni denominatori”, in Jacobin-Italia, marzo 2021 –https://jacobinitalia.it/come-costruire-coalizioni-intersezionali/; “Intersectional Alliances in Soledad Prison: The Exemplary Life of John Brown Childs”, in Capitalism Nature Socialism RCNS, April 2021 – https://doi.org/10.1080/10455752.2021.1911385; “Affective Politics and Alliances in ‘Queering the Gypsy’ and Facing Antiziganism in the LGBT Milieu”, in Critical Romani Studies, vol. 4, n. 1, 2021, pp. 14-34.
[ii] “How Indigenous Feminist Theory can Decolonize Sociology: Ideas, Readings and Bridges in the Global Context”, in Thinking Gender: Socio-Cultural Perspectives, Concept Publishers, New Delhi, 2019.
[i] Jacobin, (2021), Intersectional Alliances to Overcome Gender Subordination: The Case of Roma-Gypsy-Traveller Women, in Journal of International Women’s Studies, vol. 22, n. 4, pp. 152-166 – https://vc.bridgew.edu/jiws/vol22/iss4/11
[iii] Si veda il link: https://retegifts.wordpress.com/2022/10/05/rapporto-pilota-sugli-studi-di-genere-intersex-femministi-transfemministi-e-sulla-sessualita-in-italia-2022/