Ricordare Genova
Maurizio Acerbo*
Ricordare le giornate di luglio 2001 non ha nulla a che fare col reducismo su cui ironizzano i cinici. D’altronde se state sfogliando questa rivista vuol dire che non siete reduci ma resistenti. “L’ignoranza o la conoscenza del proprio passato reale è un fattore importante dello sviluppo del movimento operaio”, insegnava un grande storico come Georges Haupt. Vale anche nel XXI secolo. Genova non fu un evento improvviso ma l’emersione di un processo e di un lavoro lungo e paziente, “lillipuziano” si sarebbe detto allora. È importante non dimenticarlo perché oggi in condizioni assai più difficili dobbiamo provare a costruire una nuova fase di movimento e di lotte.
In questi giorni sono andato a cercare in rete il film collettivo “Un altro mondo è possibile” che fu girato nelle giornate del G8 su iniziativa del nostro compagno Citto Maselli.
Restituisce un racconto non appiattito sulla violenza e la repressione ma esprime la ricchezza di mondi, storie, generazioni, colori che riempirono le strade della città in quelle giornate. Negli anni successivi si parlerà molto di “massa critica” senza grossi risultati; Genova funzionò invece come una critical mass e un moltiplicatore. Ci si dette appuntamento e si arrivò in tante/i. Il movimento dei movimenti non era solo la confluenza di tante organizzazioni diverse più o meno grandi o piccole come nel Genoa Social Forum, ma esprimeva una composizione derivante delle trasformazioni sociali e produttive degli ultimi decenni. Non fu solo somma degli organizzati, ma soprattutto un veicolo di mobilitazione che suscitava energie nuove o riattivava il desiderio di partecipare direttamente. Bisognerebbe fare un’inchiesta su dove sono finite e cosa pensano oggi le persone che componevano quel “popolo” che si ritrovò a Genova in quei giorni. Ma forse la cosa più importante però è domandarsi quale sarà la Genova della prossima generazione.
Un fallimento?
Si dice che Genova fu un fallimento e una fiammata che si spense immediatamente. Niente di più sbagliato. Innanzitutto non si erano mai viste centinaia di migliaia di persone partecipare a una mobilitazione autonoma dal centrosinistra e che non aveva neanche l’appoggio della Cgil (tranne Fiom e sinistra sindacale). La violenza della repressione da “guerra di bassa intensità” non causò smobilitazione; anzi amplificò indignazione e simpatia. Ritornati da Genova, in tutte le città organizzammo manifestazioni contro la repressione che registrarono una partecipazione enorme e proliferarono social forum territoriali come nuove forme di organizzazione politico/sociale unitarie. Berlusconi aveva vinto pochi mesi prima, dopo cinque anni di governi di centrosinistra che avevano portato avanti politiche neoliberiste avviando precarizzazione, realizzando più privatizzazioni della Thatcher e portando l’Italia per la prima volta nella storia repubblicana in guerra. Mentre l’opposizione parlamentare era un pugile suonato, a Genova emerse una coalizione sociale e politica inedita anche se frutto di percorsi di resistenza politica, sindacale sociale e culturale sviluppatisi nel corso degli anni ’90. Si aprì un eccezionale ciclo di mobilitazioni nel nostro paese che per alcuni anni rappresentarono la vera opposizione. Il movimento dei movimenti fu contagioso, e non si occupò solo di emergenze planetarie ma soprattutto di contrastare misure del governo come la legge Bossi-Fini, la riforma Gelmini della scuola o la legge 30.
Si moltiplicarono esperienze, pratiche sociali, progetti, autoformazione, vertenze in tutti i territori. Senza Genova non ci sarebbero stati i Girotondi, l’enorme manifestazione della Cgil del 23 marzo 2002 che bloccò l’abrogazione dell’articolo 18, il Forum Sociale Europeo di Firenze, l’oceano pacifico della mobilitazione (globale) contro la guerra in Iraq del 15 febbraio 2003. In quella occasione la nostra carissima Haidi, la mamma di Carlo, lesse la lettera che l’EZLN aveva indirizzato “ai fratelli e alle sorelle dell’Italia ribelle”.
Il movimento globale e noi
Erano stati proprio gli zapatisti il primo gennaio 1994 a lanciare un messaggio rivolto a quelle che il sup definiva “sacche di resistenza” in tutto il pianeta e a proporre un immaginario anticapitalista che ebbe un impatto enorme e un’attitudine nuova radicata in una resistenza antica. “Siamo nuovi, siamo quelli di sempre”, tradurranno i Wu Ming.
Rifondazione Comunista fece la scelta immediata di relazionarsi con quell’esperienza che attirò l’attenzione di intellettuali critici e movimenti. Il subcomandante Marcos propose una sorta di approccio intersezionale e un’attenzione ai commons che suscitò l’attenzione di femministe come Silvia Federici e Maria Rosa Dalla Costa: “Donne, bambini, anziani, giovani, indigeni, ecologisti, omosessuali, lesbiche, sieropositivi, lavoratori e tutti quelli che non solo “esuberano”, ma che per di più “disturbano” l’ordine e il progresso mondiale, si ribellano, si organizzano e lottano.Sapendosi uguali e differenti, gli esclusi della “modernità” cominciano a tessere le resistenze contro il processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino che avanza come una guerra mondiale, il neoliberismo”. Il suo bellissimo manifesto “Marcos è un gay a San Francisco” ecc. ecc. circolò ovunque. Poi arrivò la rivolta di Seattle del novembre 1999 contro il vertice del WTO che segnò la nascita del movi- mento dei movimenti con un’inedita coalizioneche fece da modello e ispirazione per tutte/i, che andava dallo storico sindacato dei portuali della West Coast che sorpresero tutti cantando l’Internazionale, agli ambientalisti con i costumi da tartarughe e soprattutto le diverse reti di azione diretta.
Dalla stagione dei movimenti monotematici si passava alla convergenza contro il nemico comune. Bovè paragonò quelle giornate almaggio ’68. A proposito di entusiasmo scrissi una lettera a Liberazione – scusate se mi cito – che il giornale pubblicò col titolo Lotta stellare:
«Compagni sono felice, ho visto il mio partito nelle strade di Seattle. Se cerchiamo l’evento di sinistra è lì che dobbiamo guardare. È multicolore, allegro, creativo, determinato. È di classe, di genere, multirazziale, ambientalista. È gioioso, pieno di ritmo, simpatico. Sembra uscito dalla lontana profezia di Ginsberg, rende meno esotico il messaggio di Marcos. Sul piano dell’immaginario sbaraglia tutte le Hollywood del potere. La polizia dell’Impero è nera e tetra come i cattivi di “Guerre Stellari”, i manifestanti luminosi come i ribelli di Luke Skywalker. Nei telegiornali irrompe come una sorpresa inattesa, ma ha il sapore delle mille esperienze che continuano ostinatamente a proliferare e a cercarsi. Internet non la usano solo i padroni. La notizia è che le proteste bloccano i negoziati. L’Ulivo mondiale decreta il coprifuoco. La disobbedienza civile, l’indignata autodifesa, l’azione diretta, cioè la responsabilità di opporsi in prima persona, forse sono quello che è mancato nel nostro opporci alla guerra. Non è più la Los Angeles del gesto distruttivo e disperato su cui mi fecero ragionare Portelli e la Rossanda, è concatenamento consapevole di mille ragioni di rivolta. La lotta di classe non è finita nel capitalismo postmoderno, occorre come al solito reinventarla. Abbiamo bisogno di buoni esempi, riproducibili e contagiosi. Come le canzoni di Manu Chao».
Con mio partito mi riferivo sia a Rifondazione, che fu l’unico partito italiano presente a Seattle insieme a centri sociali del nord est e ambientalisti, sia alla visione più larga del partito che aveva Marx. Ken Loach disse che la militanza dopo Seattle era ritornata sexy. Di certo l’indignazione verso il neoliberismo e metodi di lotta creativi suscitarono sempre più largo coinvolgimento. Di vecchi militanti e di nuove generazioni. Un aspetto molto interessante è che la mobilitazione del “popolo di Seattle” aveva come bersaglio proprio quello che Nancy Fraser ha poi definito il “neoliberismo progressista”. La sintonia tra le critiche a Clinton e quelle che facevamo noi al centrosinistra italiano rendeva meno incomprensibile la nostra rottura con l’Ulivo. Consentiva di inserire la nostra polemica in una cornice più vasta. L’effetto più importante del movimento globale fu che le idee antiliberiste e anticapitaliste cominciarono a non essere considerate più un residuo “vetero” e nostalgico del passato ma un’urgenza del presente. Almeno per le minoranze di massa che si riconoscevano nel movimento.
Alla fine i vertici per sottrarsi alle contestazioni cominciarono a riunirsi in luoghi irraggiungibili. Quella tattica (inventata dagli yippies a Chicago nel ’68) perse forza e molti hanno pensato che il movimento globale sia scomparso. Mentre non sono mai mancate campagne internazionali, il movimento si è riterritorializzato in molteplici modi: Occupy Wall Street, le campagne di Sanders e Corbyn, il movimento contro il cambiamento climatico, la quarta ondata femminista, gli Indignados e poi Podemos, Syriza e l’Oxi, l’elenco sarebbe lungo. Quando esplose la minirivoluzione islandese a dirigerla c’era un social forum. Per non parlare dell’America Latina dove nacque nel 2001 il Forum Sociale a Porto Alegre e dove si sono registrate vittorie storiche. Non sarebbe stata possibile la ripresa di un discorso in molti paesi sul socialismo e il comunismo senza quel movimento. Come ha scritto David Harvey: “Se, come ha dichiarato il movimento alternativo per la globalizzazione della fine degli anni ‘90, “un altro mondo è possibile”, allora perché non dire anche “un altro comunismo è possibile”? Le circostanze attuali dello sviluppo capitalistico richiedono qualcosa di simile, se si vuole ottenere un cambiamento fondamentale”.
Le giornate del G8 segnarono il punto più alto della storia di Rifondazione e del complesso della sinistra antiliberista in Italia dopo il 1991. Si aprì una possibilità non compiutamente esplorata per limiti soggettivi di tutte le realtà che ne fecero parte. Forse si sarebbe retta meglio la questione del r apporto col governo e anche l’ondata populista. Di certo non si riuscì a produrre un progetto politico e delle forme organizzative all’altezza della forza e della composizione che aveva un’area che per alcuni anni fu in grado di mobilitare il paese. Quello che abbiamo tentato di fare quando siamo diventati deboli avremmo dovuto farlo allora. Di certo la scelta dell’internità al movimento fu giusta. Oggi il quadro nel nostro paese è completamente cambiato ma da quell’esperienza abbiamo molte cose da imparare.
* Maurizio Acerbo è Segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista
Foto in apertura dell’articolo dalla pagina Facebook @Genova2021