Riflessioni sul sistema pensionistico e il sistema comune
Gruppo Pensionati Critici*
L’interessante testo che segue nasce come lettera di osservazioni critiche al libro di Sergio Rizzo Il Titanic delle pensioni, e con l’obiettivo, da parte dei promotori, di promuovere una discussione sui temi delle pensioni e del welfare.
L’ultimo libro di Sergio Rizzo, Il Titanic delle pensioni, elenca una serie impressionante di sprechi, distorsioni, abusi ed esempi di mala politica, ma di fatto, nell’analisi e nelle proposte individuate, afferma ancora una volta che non esistono alternative a questa società, basata sull’individualismo, la competizione, l’accumulazione, la precarizzazione del lavoro e della vita: è insomma in piena sintonia con il senso comune corrente, al quale non accettiamo più di rassegnarci.
Abbiamo trasmesso le nostre osservazioni critiche a Rizzo attraverso la rivista di cui è collaboratore, “L’Espresso”, ma riteniamo importante farle conoscere a una platea più estesa, ben consapevoli di quanto sia difficile anche solo ascoltare una voce fuori dal coro.
Non ci aspettiamo quindi che questa voce possa essere facilmente condivisa, ma che almeno si prenda atto che nella società esistono anche proposte diverse dagli stereotipi ossessivamente e acriticamente ripetuti; studi che presentano una diversa esperienza della realtà e meriterebbero sicuramente attenzione.
Dopo i primi due capitoli, dedicati agli eccessi che i nostri politici non hanno voluto risolvere essendone i principali beneficiari (cumulo di vitalizi e pensioni, contributi figurativi per le cariche politiche elettive, …), il libro entra nel cuore del problema: il crac delle pensioni, ovvero l’insostenibilità economica del sistema pensionistico a ripartizione, accusato di essere responsabile anche di tutti i mali descritti poi in tutto il seguito del testo.
I temi sono gli stessi che i nostri governanti portano avanti da oltre trent’anni con progressive “riforme” che hanno ottenuto l’unico risultato di affondare non solo le pensioni, ma l’intero stato sociale, come ben recita il sottotitolo del libro “Perché lo stato sociale sta affondando”.
E purtroppo, grazie al martellamento quotidiano di stampa e televisione, anche il senso comune ha finito per accettare l’idea che tutti i nostri problemi attuali sono causati dagli enormi sprechi del periodo delle vacche grasse. Ma è proprio vero che non ci sono più soldi?
Trent’anni di politiche neoliberiste non sono pochi e, se le soluzioni trovate non hanno portato risultati, anzi la situazione continua a peggiorare, forse ci si dovrebbe chiedere se la cura adottata sia effettivamente valida. Forse si dovrebbero cambiare dottori e medicine, oppure, per restare nella metafora del libro, il problema è il comandante del Titanic: il neoliberismo.
Veniamo dunque agli aspetti che intendiamo evidenziare.
Il sistema a ripartizione
Nel libro, il sistema a ripartizione su base retributiva viene considerato il vero problema … gigantesco … irrisolvibile … il peccato originale.
In un patto di convivenza civile fra generazioni, basato sulla cooperazione e non sull’antagonismo, non dovrebbe esserci nulla di insensato nel fatto che i lavoratori di oggi paghino le pensioni ai
lavoratori che ieri hanno creato le condizioni per il lavoro odierno.
Ogni generazione, ogni persona quando nasce, non parte da zero, ma si trova in un mondo già funzionante ad opera di tutte le generazioni precedenti che hanno coltivato quelle terre, costruito strade, ferrovie, case, scuole, ospedali; che hanno prodotto biciclette, automobili, televisori, frigoriferi; operai, ma anche scienziati, filosofi, insegnanti, educatori, giornalisti. Si tratta di una ricchezza materiale disponibile di cui non abbiamo alcuna consapevolezza.
E non è solo questo! Oggi un giovane, prima di entrare nel mondo del lavoro, viene mantenuto dalla famiglia (genitori che lavorano, nonni in pensione) almeno fino a 22-25 anni: le capacità lavorative che può mettere in atto sono indiscutibilmente anche merito della lunga fase di mantenimento precedente, che gli ha permesso di crescere e apprendere. E, anche in questo caso, la singola famiglia avrebbe potuto ben poco se non fossero state già disponibili scuole, strade, oltre ai mezzi di trasporto, insegnanti, e così via.
Questo per dire che nella nostra società siamo totalmente, quanto inconsapevolmente, dipendenti gli uni dagli altri, e ogni generazione deve qualcosa a tutte quelle che l’hanno preceduta.
Il sistema a ripartizione mette correttamente in evidenza questa interdipendenza che l’alternativa, cioè il sistema a capitalizzazione, oscura totalmente, spingendoci a credere che ogni individuo possa costruirsi la propria vita senza curarsi degli altri, solo sulla base delle proprie capacità, partendo da zero e accumulando progressivamente un gruzzoletto che gli garantirà una vecchiaia serena.
Ma le famose buste arancioni dell’INPS hanno già fatto capire ai lavoratori di oggi che la capitalizzazione dei loro contributi garantirà, se tutto va bene, solo pensioni da fame.
D’altra parte, i contributi per le pensioni integrative sono difficili da sostenere in presenza di paghe miserabili e lavori precari e intermittenti. Senza contare che affidarsi a dei fondi privati è molto rischioso (il caso di ENRON e la crisi del 2008 dovrebbero farci molto riflettere) e l’andamento dei rendimenti potrebbe non essere sempre favorevole come vorrebbero farci credere. Oggi sentiamo vicino anche il pericolo diretto di una guerra che sembrava ormai un’eventualità impossibile. E con le guerre, si sa, i risparmi spariscono, oltre alle nostre stesse vite.
La bomba demografica
Anche questo aspetto è costantemente tirato in ballo dagli economisti dei salotti televisivi. A seguire le loro argomentazioni, sembra che non abbiamo via di scampo: si tratterebbe di semplice aritmetica.
Se i lavoratori attivi diminuiscono per il calo demografico e i pensionati aumentano per l’aumentare della speranza di vita, i contributi versati, in breve tempo, non saranno più in grado di pagare le pensioni (anche perché il salario di riferimento diminuisce anziché aumentare!).
La soluzione adottata è semplicemente prolungare l’età lavorativa fino a 67 anni (e oltre) e lasciare a ogni individuo la possibilità di costruirsi la pensione con i propri contributi obbligatori e volontari: lo stato abbandona ognuno al proprio destino. La filosofia è quella del “si salvi chi può”: il Titanic affonda, appunto!
L’invito a fare più figli è patetico.
I figli restano a carico delle famiglie fino a 25 anni e il sostegno pubblico è irrisorio, considerando la carenza di asili nido e del relativo personale, i problemi della scuola e della sanità, i costi insostenibili dell’università e si potrebbe continuare a lungo con l’alimentazione, i trasporti, ecc.
Dal punto di vista delle finanze pubbliche, il calo delle nascite rappresenta piuttosto un grosso risparmio per i servizi che non è più necessario erogare.
D’altro canto, il livello di disoccupazione giovanile è altissimo. E allora perché fare figli se poi il lavoro per loro non c’è? E far lavorare più a lungo gli anziani non libera certo posti di lavoro per i giovani.
Evidentemente il problema non è l’aritmetica demografica, ma la mancanza del lavoro.
La produttività e la ricchezza reale
E arriviamo alla questione centrale, che il senso comune e il pensiero corrente non prende in considerazione.
L’innovazione tecnologica ha portato nel tempo a un aumento enorme della produttività del lavoro.
Una volta i campi venivano arati con i buoi; le operazioni di mietitura, trebbiatura, diserbo, mungitura, richiedevano un enorme dispendio di manodopera. Per questo i contadini dovevano fare molti figli. I figli erano un investimento per il futuro.
Oggi trattori sempre più potenti ed efficienti, le mietitrebbia, il diserbo chimico, la mungitura meccanica permettono un risparmio gigantesco di manodopera, con cui l’agricoltura produce una quantità di alimenti incomparabilmente superiore a quei tempi, sfamando una popolazione più numerosa.
Lo stesso discorso vale per l’industria: il progresso tecnologico fornisce produzioni sempre crescenti e richiede sempre meno lavoro umano: la disoccupazione è destinata ad aumentare sempre di più e a nulla servirà fare più figli.
Ma allora, perché dobbiamo lavorare di più se è il lavoro che manca?
Perché dobbiamo continuare a produrre sempre di più se poi non abbiamo la possibilità di accedere alla ricchezza materiale prodotta?
Perché dobbiamo considerare un disastro l’aver raggiunto una speranza di vita maggiore, grazie ai miglioramenti nell’alimentazione, nei sistemi di cura e nell’aver preso coscienza e poi acquisito dei diritti una volta inesistenti?
Esiste una ricchezza reale che ci viene oscurata da una ricchezza idealizzata nell’accumulazione di denaro, alla quale siamo tutti sottomessi.
Forse è giunto il momento di uscire dalla caverna in cui ci siamo chiusi e guardare la realtà con nuovi occhi. La ricchezza che abbiamo prodotto non si può misurare col denaro.
Nessuna retromarcia: solo se troveremo un’alternativa ci salveremo
Nell’ultimo paragrafo del libro, dal titolo “Solo la retromarcia ci salverà”, si presagisce che «la tecnologia cancellerà presto ogni residuo della vecchia società industriale. Il lavoro sarà sempre più intermittente, e il ‘tempo indeterminato’ resisterà forse in ambiti molto confinati, come quelli della pubblica amministrazione e dei servizi alla collettività. Con rischi non indifferenti per la tenuta sociale. L’intermittenza del lavoro potrà accrescere la precarietà e la competizione salariale al ribasso, soprattutto per certe categorie di mestieri. […] gli stravolgimenti nell’assetto produttivo, con la forbice dei redditi destinata ad ampliarsi a dismisura e la fine del vecchio patto fra generazioni basato sul modello morente della società industriale, non mancheranno di avere risvolti profondi sullo Stato sociale».
Ed ecco la proposta finale: «… se si vuole far sopravvivere un sistema previdenziale funzionante bisogna cambiare strada. Non come si è fatto nel 1995, con l’introduzione di un metodo di calcolo contributivo. Perché troppo timido. L’idea di pagare a ciascuno la pensione sulla base dei contributi effettivamente versati è sacrosanta. Ma può funzionare se i contributi versati vengono investiti per produrre reddito e incrementare la rendita futura; non se sono invece utilizzati esclusivamente per pagare gli assegni di chi è già in pensione. La verità è che con la fine inesorabile della società industriale ogni sistema a ripartizione è destinato prima o poi a non tenere più. […] forse è arrivato il momento di non pensare più alla capitalizzazione soltanto come forma di previdenza integrativa per il cosiddetto ‘secondo pilastro’, ma direttamente per il primo, quello della previdenza obbligatoria. Per salvare le pensioni future non c’è altro da fare che una marcia indietro di ottant’anni».
Sembra un destino distopico inevitabile, la naturale conclusione di un periodo in cui abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. E chi viene additato come unico colpevole di tutti i mali?
Il sistema pensionistico a ripartizione, naturalmente!
Ma la soluzione non può essere una marcia indietro di ottant’anni e tornare al sistema a capitalizzazione. Solo poche pagine prima si affermava che «La verità è che per decenni il sistema made in Italy ha funzionato al di sopra delle possibilità del Paese. Soprattutto, sempre con uno sguardo rivolto al passato e mai al futuro. E quando il futuro ha bussato alla porta pochi hanno voluto prenderne atto».
Il passato deve essere il tesoro che abbiamo a disposizione per progettare il futuro.
Ottant’anni fa eravamo nel mezzo della seconda guerra mondiale.
Con la sconfitta del nazismo e del fascismo abbiamo conquistato dei diritti, sanciti dalla Costituzione, per restituire dignità alle persone attraverso il lavoro, la casa, la salute, l’istruzione, …
Lo Stato è intervenuto per garantire questi diritti a tutti attraverso lo stato sociale.
La spesa pubblica sostenuta ha permesso uno sviluppo talmente grande da definire quel periodo il trentennio glorioso (non solo in Italia). Ma non si è trattato di un miracolo, bensì dell’attuazione di una politica economica alternativa rispetto a quella adottata in precedenza: perseverare con la politica del lasciar fare al libero mercato, che aveva portato alla crisi del ‘29 e poi alla guerra, era semplicemente sbagliato.
Quei trent’anni hanno portato benefici a tutti, sia alle imprese che ai privati cittadini, ma pochi si sono soffermati a cercare di capirne le motivazioni economiche.
Così, quando a metà degli anni ‘70 il sistema ha cominciato a scricchiolare, si è progressivamente tornati a percorrere la vecchia strada del libero mercato: il passato un po’ alla volta si è ripresentato con il lavoro, la casa, la salute, l’istruzione, la pensione che sono tornati ad essere un privilegio. E i più poveri dovranno farsi bastare per tutto il 2023 la carità di una social card da 382 euro!
Davvero vogliamo tornare a quel passato, al sistema vigente prima della seconda guerra mondiale?
Davvero non ci sono alternative?
Io penso che le alternative si possono e si devono trovare.
Le politiche neoliberiste non hanno risolto la crisi in cui ci troviamo da oltre quarant’anni, anzi si sono dimostrate inutili e dannose.
Le privatizzazioni, le liberalizzazioni, l’austerità, lo smantellamento dello stato sociale, la precarizzazione del lavoro, hanno stimolato la competizione (tra persone, tra istituzioni, tra Stati) e l’individualismo sempre più spinto.
Le disuguaglianze sono aumentate, la società si è spaccata e mancano dei valori condivisi che permettano di progettare un futuro migliore e in più oggi abbiamo una sfida gigantesca da affrontare: l’ambiente in cui viviamo si è ribellato alla nostra invadenza e i cambiamenti climatici ne sono solo un aspetto, peraltro negato o minimizzato da molti governanti.
In conclusione, il problema delle pensioni e dello stato sociale non si risolve con un ritorno al passato, ma va affrontato mantenendo salde le conquiste ottenute nei diritti sociali.
Certamente c’è bisogno di redistribuire la ricchezza, separare la previdenza dall’assistenza, combattere l’evasione fiscale e contributiva e tutte le furberie e nefandezze descritte nel libro (che non sono causate dal sistema a ripartizione), ma serve soprattutto un nuovo progetto di società, un nuovo modo di produrre, un nuovo modo di rapportarsi.
Proseguire nella direzione che stiamo percorrendo ci porterà a disastri ben peggiori di quelli accaduti ottant’anni fa.
Mestre, 21/9/2023
contatto: apignatto@gmail.com