Riflettere sull’esperienza del sindacalismo di base
Mario Sanguinetti*
L’esperienza del sindacalismo di base e conflittuale ha ormai diversi decenni alle spalle. La “nascita” viene datata alla metà degli anni Ottanta con il diffondersi dei Cobas Scuola che per primi “inventano” la sigla che poi verrà ampiamente utilizzata per altre realtà lavorative e organizzative. In realtà già prima di allora vi erano state esperienze di base nate al di fuori del sindacalismo confederale ma mai in forma così evidente e diffusa su tutto il territorio nazionale. Una valutazione dell’agire teorico e pratico si rende quindi necessaria dopo questi anni di presenza nello scenario sindacale e politico italiano, cercando di comprendere i motivi che oggi ne determinano una quasi insignificanza nel contesto attuale. Proprio per questo da un paio di anni alcune sedi Cobas Scuola hanno posto all’ordine del giorno all’interno dell’organizzazione una serie di questioni su cui aprire un confronto serio anche serrato per alcuni aspetti. Proviamo a esporli di seguito consapevoli che tali considerazioni che poniamo a tutta l’organizzazione investono il modus operandi di molteplici realtà della sinistra anticapitalista.
Occorre, innanzitutto, prendere atto che le difficoltà di estensione e radicamento del sindacalismo di base (e dei movimenti in generale) necessitano di un’analisi approfondita e complessa che non può essere ulteriormente rinviata.
Noi ne individuiamo in particolare due: le difficoltà interne, determinate dalla scarsa capacità di riuscire a superare modelli verticistici (tipici di modelli relazionali e sociali capitalistici), e le difficoltà esterne, rappresentate dalla non comprensione della fase politica degli ultimi decenni.
La critica al modello competitivo di relazione sociale, tipico della società capitalistica, non è riuscita a produrre anche un’autocritica in riferimento alle modalità di relazione interne, nonostante la puntuale e ormai consolidata produzione teorica del movimento femminista su questa questione. Invece si tende a riprodurre una modalità di organizzazione verticistica e centralizzata secondo gli schemi consolidati che contestiamo e che spesso, in modo perfino più subdolo, si attua con il riconoscimento “carismatico” del leader all’interno di organizzazioni e movimenti che si definiscono di base.
Riteniamo che questi rischi riguardino il sindacalismo di base e i movimenti tout court in cui, come afferma Stefano Boni in Orizzontale e verticale. le figure del potere, emerge una certa “insofferenza con cui un processo decisionale orizzontale viene accolto da alcune istituzioni, abituate a considerare la parola pubblica come una prerogativa di un capo che la impone verticalmente a un uditorio passivo”1.
Di fronte all’evidente tentativo di restringimento degli spazi di democrazia in atto nel nostro Paese ci sarebbe, invece, necessità sempre più urgente di capacità di coinvolgimento creando spazi e momenti che favoriscano la partecipazione personale e collettiva.
L’esperienza dei Comitati di Base della Scuola, consapevolmente o inconsapevolmente, era nata anche con questi paradigmi, come tutte le esperienze storiche “dal basso”. Più in generale le agitazioni promosse dai Cobas Scuola avevano sì lo scopo di produrre un risultato a breve termine di miglioramento delle condizioni del personale scolastico, ma erano concepite come parte di un processo a lungo termine di autoeducazione collettiva. La partecipazione e la condivisione non erano pertanto elementi di contorno, ma essenza dell’azione politico-sindacale: i mezzi e il fine rappresentavano due poli dialettici e non un nesso causale.
Il ribaltamento critico delle scelte dei soliti Cgil, Cisl e Uil non era solo nel merito di un contratto (1987), già allora orrendo e aziendalistico, ma era anche determinato dalla totale assenza di condivisione di tali scelte: si decideva nelle “segrete stanze” delle segreterie e poi, attraverso assemblee sindacali nelle scuole, si tentava la classica operazione di convincimento del personale sulla bontà delle piattaforme (ahinoi pratica ancora largamente diffusa anche in quest’ultimo contratto).
L’originalità del nostro percorso si era ulteriormente manifestata negli anni Novanta e Duemila, quelli dell’egemonia “neoliberista”, che hanno messo in luce i limiti delle organizzazioni operaie tradizionali che, nel migliore dei casi, hanno tentato di resistere agli attacchi padronali, ma che non erano in grado di fornire una visione alternativa all’impianto teorico egemone a causa dell’accettazione della narrativa del mercato come sistema economico autonomo e autoregolatorio.
I confederali (e i loro riferimenti partitici) sono anche riusciti a depoliticizzare le proprie politiche, che sono state presentate come mere espressioni di scelte economiche razionali, la cui logica era appannaggio esclusivo di una classe di teorici, tecnocrati, esperti. In tale contesto si sono anche ripristinate gerarchie di valori e di ruoli, esplicitando i limiti della democrazia parlamentare e partecipativa con tendenze a restringere a numeri sempre più ristretti luoghi e poteri decisionali in relazione a ciò che doveva rimanere invece di competenza collettiva.
Ora, tornando all’oggi di ciò che avviene nella scuola, e osservando l’attuale situazione dei Cobas e del sindacalismo di base in generale, ci pare che alcuni dei problemi che incontriamo nel rapporto con la categoria siano determinati da una “normalizzazione” della nostra prassi e da una passiva e silente accettazione dello status quo, una sorta di resa condizionata dalla incapacità di analizzare e comprendere limiti e potenzialità dei cambiamenti in atto: attribuire la responsabilità delle nostre difficoltà alla categoria, che sarebbe ormai non coinvolgibile sul terreno sindacale, culturale e politico, è una scorciatoia teorica autoassolutoria che non serve a nessuna/o. Questa posizione ha anche il limite, di cui forse non si è del tutto consci, di ignorare che la scuola rappresenta una delle principali casematte per rimettere in discussione il presente, anche, e forse soprattutto, quando sembra prevalere l’idea della “fine della storia”.
Dobbiamo, invece, recuperare la dimensione dei Comitati di Base come luogo di riflessione e azione in un’ottica educante ed autoeducante, così come è stato fatto da quel personale scolastico, seppur non maggioritario, che si è reso protagonista delle lotte nei decenni passati quando siamo stati in grado sia di elaborare contenuti propositivi che di opporre resistenza ai processi di ristrutturazione capitalistica in atto. Infatti noi riteniamo che oggi, come ieri, non ha senso l’attività sindacale, se non è parte di un’idea complessiva di trasformazione, in grado, nel nostro caso, di contestare alla radice competenze e merito e di rimettere al centro la questione della funzione sociale della scuola pubblica.
Queste considerazioni sono necessarie anche per introdurre una riflessione su alcuni aspetti della vita politica italiana. Le lacrime di coccodrillo sul decremento pressoché costante della partecipazione al voto denotano una lettura dei fatti distorta: le cose vanno male perché le persone non partecipano alle elezioni, sostengono alcuni politici e relativi commentatori. Si tratta dell’ennesima immagine capovolta della realtà, che si impone attraverso quella che potremmo ormai definire una pervasiva guerra cognitiva ai danni delle soggettività. Noi diciamo che le persone non partecipano alle elezioni proprio perché queste sono, di fatto, diventate una farsa in cui non si decide quali saranno le politiche governative (di fatto sempre le stesse appunto) ma solamente chi debba gestirle, evidenziando palesemente il contrasto alla radice dell’opposizione, funzionale al dominio neoliberista, tra government e governance.
La crisi di rappresentanza e il malessere della maggioranza della popolazione possono rappresentare una miscela pericolosa, ecco perché oggi come 100 anni fa si pone la necessità di un governo “autoritario”, che gestisca la crisi capitalistica in atto e tutte le altre crisi concentriche e collaterali, difendendo gli interessi di una minoranza privilegiata in uno stato di eccezione ed emergenza continua.
Va perciò superata la contraddizione “vertenzialista” che contraddistingue ancora molta prassi della sinistra anticapitalista: da una parte, nella scuola come in altri settori, domina una politica istituzionale compattamente schierata a difesa del modello di rapporti sociali capitalistici; dall’altra si continua a perpetrare una prassi di rivendicazioni rivolte alle principali istituzioni per l’adozione di politiche di segno opposto, attente al sociale, quando sono proprio le attuali forze politiche istituzionali, con scarse o nulle differenziazioni, che rappresentano il motore cosciente della ristrutturazione capitalistica in atto.
Per questo pensiamo che non ci si possa limitare ad una sorta di geremiade sulla latitanza di partecipazione e di opposizione delle masse popolari, ree anche di aver scelto Giorgia Meloni come unica novità in cui sperare! Piuttosto non possiamo non constatare come a tale non irresistibile esito politico abbiano appunto contribuito anche errori di analisi, pochezza politica, disorganizzazione e protagonismo leaderistico che pure alberga nella sinistra anticapitalistica, sinistra da ripensare e riorganizzare.
In conclusione, crediamo che vada portata avanti una seria autocritica su un duplice terreno: da una parte, occorre fare i conti con i residui teorici del passato, cioè con la tendenza a riproporre il ruolo di una “intellighenzia” che si fa depositaria della “Verità assoluta” e che prefigura già in partenza un’organizzazione verticistica, al di là di come ci si autodefinisca. Dall’altra parte, occorre riconoscere le incrostazioni che questo modello sociale ha introdotto anche nei nostri rapporti, riproducendo competitività e leaderismo dove dovrebbero prevalere solidarietà e condivisione. Il paradosso determinato dalla sincronizzazione di questi due aspetti ha come conseguenza il soggettivismo esasperato che contraddistingue il sindacalismo di base, e non solo, creando le difficoltà precedentemente evidenziate sia nella gestione dei processi democratici interni alle singole organizzazioni sia in riferimento alle difficoltà di relazione tra le organizzazioni e con la popolazione tutta.
In sostanza crediamo che vadano cercate e praticate nuove forme di relazione, di confronto e di rappresentanza atte a concretizzare una struttura organizzativa che sia realmente partecipata e di “base”.
* Mario Sanguinetti, Esecutivo Nazionale Cobas Scuola