Ritratto di un marxista
Giacomo Russo Spena*
Pubblichiamo, con piacere, l’introduzione del giornalista Giacomo Russo Spena, al libro Non sarà un pranzo di gala, crisi catastrofe, rivoluzione, di Emiliano Brancaccio, edito da Meltemi Linee, a cura dello stesso Russo Spena.
“È il crollo più precipitoso in tutta la storia del capitalismo, non abbiamo mai visto nulla di simile. Il virus ha innescato una crisi totalitaria, che mette in luce la fragilità del mercato capitalistico e rischia pure di sconvolgere le istituzioni liberali che lo sorreggono.
Le conseguenze politiche sono prevedibili: ci saranno attacchi più violenti al lavoro, alla democrazia, alla libertà, temo anche alla pace. L’ex capo economista FMI ha detto che per scongiurare una futura ‘catastrofe’ serve una ‘rivoluzione’ keynesiana. Io penso che rievocare Keynes non basti, come non basta reclamare un reddito. Questa volta bisogna iniziare a concepire un’alternativa di sistema: io dico una nuova logica di pianificazione collettiva, come propulsore della libera individualità sociale. Vasto programma, certo, che muove contro lo spirito del tempo. Eppure non vedo altre soluzioni: per quanto difficile sia, occorre formare un’intelligenza politica all’altezza diquesta sfida immane”.
Così Emiliano Brancaccio ha immediatamente interpretato il tracollo globale causato dal covid-19. Una chiave di analisi che ha generato un sorprendente paradosso: eresia pianificatrice che nel mezzo della crisi trova spazio persino sul “Financial Times”. È il segno iperbolico di un intellettuale lontano dalla retorica prevalente, portatore di un pensiero critico a lungo sommerso e dimenticato, che a quanto pare torna alla ribalta in questo spaventoso ingorgo di crisi, vecchie e nuove.
“È un po’ una mosca bianca tra noi, nel senso che è marxista. Parola ampiamente riabilitata. Anzi, direi che ci è a tutti professore visto come stanno andando le cose nel mondo”. Giuliano Ferrara qualche anno fa aveva sintetizzato in questo modo l’eccezione incarnata da Brancaccio. Quarantanove anni, una figlia ventisettenne, nato e laureato a Napoli alla Federico II per poi completare la formazione al Collegio Carlo Alberto di Torino e alla SOAS dell’Università di Londra, attualmente professore di politica economica nella vivace Università del Sannio a Benevento, Brancaccio è stato definito dal “Sole 24 Ore” “economista di ispirazione marxista ma aperto alle innovazioni di Sraffa e Keynes”.
L’etichetta correttamente sottolinea lo spirito innovatore di uno studioso che poco concede alle ortodossie, marxiste o meno che siano. Ma a ben guardare l’appellativo di “economista” gli va stretto. Sono infatti abituali le incursioni oltre il perimetro dell’economia che lo portano a sconfinare nella filosofia delle scienze, nella letteratura, nel cinema, nell’arte, ispirato da un desiderio di comprensione generale infrequente in un tempo di specialismo esasperato. Quanto all’ascendenza storico-materialista, il Nostro, in un certo senso, la confermò in tv, quando a un provocatorio Maurizio Mannoni che gli chiedeva se fosse davvero marxista, rispondeva serafico: “In effetti leggo Marx, e scopro che si impara qualcosa”.
Si impara e a quanto pare si può insegnare a un inatteso pubblico, visto che dallo scoppio della recessione internazionale del 2008 le tesi di Brancaccio hanno iniziato a farsi un po’ di strada anche nel gotha della finanza, in Italia e non solo. Dalla Bocconi al “Financial Times”, passando per il Forum Ambrosetti di Cernobbio: negli ultimi anni i circoli dell’ortodossia economica hanno mostrato una certa attenzione verso questo atipico intellettuale “rosso”. Tra tante, una prova forse spicca su tutte. Per quello che risulta, non era mai accaduto che altri esponenti dell’eresia marxiana avessero potuto misurarsi in un confronto pubblico con un capo economista del Fondo Monetario Internazionale. Il dibattito del dicembre 2018 a Milano tra Emiliano Brancaccio e Olivier Blanchard ha rappresentato quindi una prima assoluta mondiale. Se aggiungiamo che quel confronto aveva per oggetto un incendiario manualetto critico dal titolo “Anti-Blanchard”, comprendiamo ancora meglio che si è trattato di una disputa senza cerimonie, un piccolo “big bang” paradigmatico nei salotti ovattati della comunità accademica internazionale.
Come è potuto avvenire tutto questo? Il detonatore è stato la grande recessione mondiale del 2008, non c’è dubbio. Già prima di allora Brancaccio era un volto noto degli studi televisivi. Ma come lui ricorda, all’epoca il suo ruolo somigliava a quello del fool shakespeariano, l’unico matto autorizzato a dire la sfacciata verità dinanzi al re. Dopo la crisi però qualcosa è cambiato, con le vecchie certezze dell’ortodossia a vacillare e le eresie a farsi lentamente strada nella dialettica politica. La crisi ha cambiato radicalmente la contesa delle idee, creando opportunità che prima sarebbero state precluse anche al più smaliziato dei pensatori critici. Opportunità che il tracollo spaventoso causato dal coronavirus potrebbe forse accrescere.
Ma in che modo il Nostro ha saputo cogliere queste occasioni? Alcuni colleghi spiegano che una peculiarità risiede nel suo metodo “comparativo”, che insiste su un confronto tra l’impostazione economica prevalente e le scuole di pensiero critico. Di sicuro questo approccio ha attirato l’attenzione di vari studiosi di caratura internazionale, tra cui Blanchard è senza dubbio la punta di diamante. Ma, al di là dei meriti scientifici, credo ci sia dell’altro. Il punto è che alla solita invettiva Brancaccio preferisce il ragionamento, l’opera maieutica di convincimento. Ironia e arte della provocazione intellettuale disarmano gli interlocutori e talvolta li spingono ad ammettere l’indicibile. Come Romano Prodi, che dichiarandosi “affascinato” dall’oratoria del nostro, arrivò a rinnegare le tesi liberoscambiste per lungo tempo propugnate e si dichiarò favorevole all’alternativa eretica del blocco delle scorribande internazionali dei capitali. O come di nuovo Blanchard, che contraddicendo le ricette draconiane che aveva prescritto per la Grecia e gli altri reprobi europei appena pochi anni prima, si dichiarava “al cento per cento d’accordo con Emiliano” sul potenziale distruttivo delle politiche deflattive. Ma è forse stata di Mario Monti la confessione più clamorosa: “Io sono abbastanza d’accordo con Brancaccio: è difficile immaginare una sintesi keynesiana senza il pungolo della minaccia socialista. Il sistema capitalistico ha dato il peggio di sé da quando è caduto il muro di Berlino”. Quasi una catarsi filo-sovietica da parte del più blasonato liberista italiano, all’epoca ripresa e rilanciata da giornali e social: la “Mario Monti revolution” fece discutere.
Sir Robert Skidelsky, nella prefazione alla versione inglese dell’Anti-Blanchard di Brancaccio, insinua che il segreto del nostro stia nell’essere “so respectful” da indurre gli avversari a condividere lo spirito, se non addirittura la sostanza, delle critiche impietose che rivolge a essi. Vero, ma con qualche eccezione. In assenza di reciprocità, il rispetto di Brancaccio per gli avversari si trasforma all’improvviso nel suo opposto: un sarcasmo destinato a mortificare gli oppositori più sguaiati. Ne sa qualcosa l’economista leghista e anti-euro Alberto Bagnai, che dal nostro venne pubblicamente dileggiato come caso psicologico stevensoniano: utile divulgatore di informazioni per un momento, agitato esibizionista di pudenda concettuali l’attimo dopo. Brancaccio, insomma, non è solo un gentile e colto interlocutore. Di fronte a nefandezze analitiche e a semplificazioni sloganistiche sa diventare aspro. A volte troppo. Sta di fatto che, diversamente dal solito, quella volta il focoso Bagnai non osò ribattere.
Da quel momento in poi, divenne chiaro a tutti che lo scetticismo di Brancaccio verso l’assetto dell’Unione Europea era cosa ben diversa dalla propaganda no-euro dei leghisti e dei loro sodali: con questi a invocare un “liberismo xenofobo” fatto di rigidi controlli all’immigrazione da un lato, ma piena libertà degli speculatori sui mercati dei capitali dall’altro, e Brancaccio a chiarire con numeri ed evidenze che invece degli immigrati bisognerebbe “arrestare” i capitali che scorrazzano liberamente nel mondo, a caccia di alti saggi di profitto e di sfruttamento del lavoro.
Del resto, più dello stile, per capire Brancaccio contano i fatti. O meglio “i dati”, come lui dice spesso. Così è stato in un celebre confronto televisivo con Elsa Fornero, ex ministra del lavoro e del welfare e, guarda caso, anche sua professoressa nel periodo di formazione torinese. Quando Fornero avviò la solita litania degli ortodossi sulla necessità di fare i sacrifici per abbattere il debito pubblico, Brancaccio ribatté: “Professoressa, ricorda che sotto il governo Monti, di cui lei fu ministra e che attuò severe politiche di austerity, il debito pubblico esplose?”. A nulla valsero gli incerti tentativi di difesa dell’ex ministra da parte dei proni David Parenzo e Sergio Rizzo. Il motivo, come di consueto, è che l’attacco di Brancaccio era stato sferrato con dovizia di dati inoppugnabili, al punto che Fornero, messa alle strette, provò a scagionarsi con un incredibile scaricabarile: “Io ero solo la ministra del lavoro, non mi occupavo di bilancio e di debito pubblico!”. Come a dire, la madre della dura riforma delle pensioni, che guarda caso porta il suo nome, sarebbe passata dalle stanze del consiglio dei ministri a firmare pacchi di decreti per puro caso.
Tra gli ultimi fuochi di quella polemica televisiva Elsa Fornero espresse però anche un altro pensiero, piccatissimo ma interessante: “Mi dispiace che Brancaccio non abbia avuto l’occasione di andare al governo. Sicuramente avrebbe dato prova di capacità molto migliori delle mie. Essendo stato mio allievo, magari qualcosa ha imparato”. Lui sorrise all’ironia e alzò le spalle, a intendere che l’ipotesi di vederlo al governo fosse del tutto sballata. Le cose però non stavano esattamente così. Sebbene Brancaccio abbia sempre mantenuto le distanze dalla militanza partitica e non abbia mai lesinato critiche anche alle forze politiche che proponevano di candidarlo a vari incarichi, bisogna ricordare che più di una volta i suoi studi e le sue proposte sono state riprese e rilanciate nei programmi di governo, come ad esempio fece il Partito democratico con l’idea dello “standard retributivo europeo”.
Il suo nome, inoltre, è effettivamente circolato nelle stanze del potere, locale e centrale. Tra i primi osò Clemente Mastella, che l’avrebbe voluto al suo fianco nel ruolo di assessore tecnico al bilancio di un comune di Benevento sull’orlo del dissesto. “Grazie ma no, grazie”, fu la prevedibile risposta. Emblematica fu anche la volta del “momento Tsipras”, quando la sinistra propose di candidare Brancaccio come capolista per il parlamento europeo, ma le sue forti perplessità sui destini del governo greco di SYRIZA lo indussero a rifiutare. E l’ultima volta avvenne durante il rapsodico toto-ministri dell’agosto 2019, nel momento di passaggio dal governo populista di Lega e Cinque Stelle all’esecutivo di stampo più europeista retto dall’accordo tra grillini e democratici. Gianluigi Paragone dagli scranni del Senato, e vari altri da diverse posizioni e schieramenti, lanciarono il sasso: “Volete un vero governo di discontinuità? Allora mettete Brancaccio al ministero dell’economia”. Ancora una volta lui fu lesto a sfilarsi, con un’intervista senza appello a “L’Espresso”, “Io ministro? Per carità, questo film non mi piace per niente”, dove espresse grande scetticismo intorno al tentativo di allontanare la minaccia di uno sbandamento a destra con le solite ricette di politica economica. Insomma, tutte le volte ha rifiutato ogni proposta. E le critiche da coloro che speravano in una sua “discesa in campo” non sono mancate. Brancaccio ha i suoi difetti, ma non lo snobismo intellettuale. La sua distanza dall’agone politico ha ragioni sostanziali, di merito.
Già prima del covid-19 egli cercava di chiarire che viviamo un’epoca eccezionale, in cui le politiche economiche ordinarie non solo pregiudicano lo sviluppo e il benessere sociale ma rischiano anche di preparare il terreno per una violenta revanche oscurantista. Supportata dagli studi del National Bureau of Economic Research e di altri, la sua tesi è che le politiche di austerity e di deregolazione dei mercati erodono il tessuto sociale, mettono in crisi le istituzioni liberal-democratiche e lentamente creano un contesto favorevole per la diffusione di una cultura politica retrograda, spesso ispirata da propositi di riabilitazione delle peggiori ideologie xenofobe, autoritarie, al limite fasciste. Per queste ragioni, i tanti che supportavano le politiche di austerity e al tempo stesso si dichiaravano anti-fascisti venivano liquidati da Brancaccio come “ipocriti”, senza mezzi termini. Per le medesime ragioni, in un’intervista che mi rilasciò e che fece un certo scalpore, il nostro arrivò a criticare anche coloro che si dichiaravano disposti a dare carta bianca a Emmanuel Macron pur di impedire la vittoria di Marine Le Pen alle presidenziali francesi. Una linea politica che Brancaccio reputa miope, perché appoggiare senza condizioni il “delfino del più retrivo liberismo finanziario” per contrastare l’avanzata della “signora fascista all’Eliseo” rischia di creare i presupposti per un’onda nera ancor più violenta in futuro. Dalla politica del “meno peggio” che ha dilagato anche nei circoli più illuminati, Brancaccio prendeva dunque le distanze sulla base di un preciso monito gramsciano: “Il meno peggio è la causa del peggio”. Una tesi allarmante sugli effetti a lungo termine dei “moderatismi” degli ultimi anni, che diventa indispensabile discutere dopo la catastrofe del coronavirus e i rischi per la democrazia che porta con sé.
Se dunque l’ordinaria politica economica dei sacrifici mette in pericolo i diritti e crea le premesse per la barbarie politica, si pone il problema di definire una linea d’azione alternativa. Su questo punto Brancaccio riprende espressioni che in modo sorprendente sono state utilizzate proprio dall’ex capo economista FMI Olivier Blanchard, nel dibattito con lui e in un paper scritto assieme all’ex ministro americano Lawrence Summers: per evitare future “catastrofi” sociali avremmo bisogno di una “rivoluzione” della politica economica. Dove Blanchard declina il concetto di “rivoluzione” in un’ottica tipicamente keynesiana: vale a dire, una politica fiscale e di investimento pubblico fortemente espansiva, coadiuvata da una politica monetaria accomodante e, se necessario, anche da forme di controllo dei movimenti di capitali.
Una concezione della “rivoluzione” un po’ riduttiva, in effetti. Eppure difficilmente qualche anno fa esponenti mainstream di questo calibro avrebbero espresso una posizione del genere con tale nettezza. Ma come persino Mario Monti ha condiviso, Brancaccio non è persuaso da questo modo di evocare Keynes. La ragione è in primo luogo di ordine storico: quello keynesiano fu un compromesso determinato dalla minaccia all’ordine capitalistico incarnata dal socialismo sovietico. Oggi, che di quella minaccia non si vede l’ombra, limitarsi a invocare un compromesso keynesiano rischia di risultare evanescente, senza appigli con la realtà materiale di questo tempo. Inoltre, il problema con Keynes e i suoi epigoni è anche di ordine logico: se per keynesismo si intende una politica che governa solo la domanda e rinuncia a intervenire sui gangli della produzione, allora diventa inevitabile denunciare i suoi limiti concettuali. Questi limiti valgono soprattutto all’indomani della “catastrofe totalitaria” del covid-19, che agisce sia dal lato della domanda che dell’offerta. Ma poi vale per tutti i guasti della riproduzione capitalistica, che non possono mai essere risolti con azioni separate ma vanno affrontati nella loro generalità conflittuale, promuovendo una logica complessiva di “repressione della finanza privata” e di “pianificazione collettiva”. Questa sì, sarebbe una vera “rivoluzione”.
La “modernità della pianificazione” è da anni una tesi chiave del pensiero di Brancaccio. Dove il potenziale di modernità, a suo avviso, si gioca proprio nella possibilità del “piano” di farsi propulsore della democrazia e della libertà. Si tratta di uno scarto radicale rispetto alla solita idea secondo cui la pianificazione porta inevitabilmente a un’oppressione di tipo stalinista. Ed è anche una sfida al luogo comune del capitalismo visto come unico garante dei diritti civili. Questo ribaltamento dell’opinione dominante Brancaccio lo sviluppa in base a una solida evidenza scientifica: gli studi suoi e di altri, che confermano l’intuizione di Marx di una tendenza storica verso la centralizzazione dei capitali. Queste analisi mostrano che proprio le forze del mercato, lasciate a sé stesse, portano a concentrare il potere economico nelle mani di gruppi di capitalisti sempre più ristretti ed elitari, e quindi a lungo andare finiscono per accentrare anche il potere politico. Per Brancaccio, questa immane concentrazione di poteri in poche mani può arrivare a pregiudicare anche il sistema dei diritti che reggono le cosiddette democrazie liberali. L’equazione capitalismo uguale libertà e democrazia, dunque, crolla sotto il peso della tendenza storica verso la centralizzazione dei capitali. La sfida per una moderna pianificazione collettiva diventa allora tanto più urgente, per lo sviluppo della libera individualità sociale. Da qui anche la dialettica che Brancaccio apre con i movimenti contro le discriminazioni razziali, di genere, sessuali, troppo spesso frenati da un’inconsapevole adesione agli schemi ideologici del capitalismo. Alla luce di questa visione innovativa Brancaccio interpreta anche la sfida epocale lanciata dal coronavirus. Una sfida che investe non solo l’economia ma anche i costumi, la cultura, e soprattutto mette a rischio la libertà, la democrazia e la pace tra nazioni. Per affrontare le forze “bestiali” che questa crisi sprigiona, “non basta chiedere un reddito, né basta evocare Keynes”. Servirebbe piuttosto “un nuovo alfabeto di lotta”, che mettesse in luce i limiti di sistema nell’azione di contrasto alla pandemia. Dall’assenza di una pianificazione preventiva in grado di arginare la diffusione di nuovi virus, alle difficoltà di risposta di sistemi sanitari largamente privatizzati, alla tendenza della speculazione privata a sfruttare i problemi di approvvigionamento, fino agli ostacoli alla ricerca scientifica causati dalla privatizzazione delle conoscenze, tutto sembra indicare che questo virus mette a nudo alcuni problemi di fondo che riguardano le logiche generali di funzionamento del capitalismo. Assieme ad altri colleghi, in un appello sul “Financial Times” e in vari articoli pubblicati su “The Scientist” e altrove, Brancaccio ha insistito sulla necessità di approntare un “piano anti-virus” non solo per fronteggiare il crollo della domanda, ma soprattutto per risolvere i problemi di “disorganizzazione dei mercati” scatenati dalla pandemia. L’esempio forse più lampante riguarda la ricerca scientifica nella lotta contro il virus, che viene rallentata dalla tendenza delle aziende private del settore a trattenere le conoscenze per venderle poi al migliore offerente sul mercato. Contro questa funesta tendenza Brancaccio ha invocato una logica di pianificazione tra paesi che spingesse le autorità pubbliche ad acquisire le conoscenze in mano ai privati per metterle subito gratuitamente a disposizione di tutta la comunità degli scienziati impegnati nel mondo a combattere il covid-19. Una proposta che il nostro ha sintetizzato in uno slogan: “Avremmo bisogno di un ‘comunismo scientifico’ nella ricerca contro il virus”. La grande parola tabù torna dunque alla ribalta, peraltro su una questione di vita o di morte, in senso tutt’altro che figurato.
Quando ancora i vertici delle istituzioni si illudevano che sarebbe stata una recessione breve e passeggera, Emiliano Brancaccio ha interpretato la tremenda crisi scatenata dal covid-19 con un’indovinata parafrasi di Mao: “Che ci porti rivoluzione o solo reazione, il futuro che ci attende non sarà un pranzo di gala”. Ho ritenuto che fosse anche il titolo giusto per questo libro, che raccoglie in forma di interviste e dibattiti l’evoluzione ultradecennale del pensiero di questo intellettuale eterodosso eppure influente. La prima parte di questo libro riporta stralci dagli appunti originali di interviste pubblicate su “Il Ponte”, “Jacobin”, “L’Antidiplomatico”, “L’Espresso”, “Liberazione”, “Micromega”. La seconda parte contiene i testi di quattro celebri dibattiti con esponenti di vertice della politica e delle istituzioni europee e internazionali: Lorenzo Bini Smaghi, Romano Prodi, Olivier Blanchard e Mario Monti. L’opera viene completata da un saggio inedito intitolato Catastrofe o rivoluzione, le due espressioni di Blanchard che qui Brancaccio critica in profondità e poi sviluppa in una direzione altamente innovativa, una vera e propria eresia razionale per questo tempo oscuro.
Il volume si chiude con alcune indicazioni bi- bliografiche per ulteriori approfondimenti. L’organizzazione cronologica dei testi consentirà al lettore di cogliere lo sviluppo del pensiero critico di Brancaccio e anche di apprezzare qualche sua virtù cassandrica nel preannunciare le crisi e le svolte politiche di questi anni.
Non sarà un pranzo di gala. Ovvero, l’epoca che ci attende potrebbe rivelarsi più irta di pericoli rispetto al settantennio che l’ha preceduta. Questa raccolta può essere allora intesa come una pacifica armeria del pensiero critico: preziosi antidoti contro la minaccia di una reazione autoritaria e solide basi scientifiche per le future istanze di progresso, libertà e giustizia sociale.