Sempre più diseguali
Guendalina Anzolin*
Qualche mese dopo la pandemia, alcuni raccontavano di come il Covid 19 avesse operato, una sorta di livella, che aveva peggiorato in egual misura le condizioni di vita di tutti. Che fosse un modo per tenere a bada milioni di persone chiuse dentro casa per la prima volta nella storia, o una fiaba a cui qualcuno ha creduto davvero, poco importa.
Non occorreva aspettare qualche mese dallo scoppio della pandemia per vedere come questa livella ha agito: in modo selettivo e con un meccanismo profondamente diseguale, colpendo chi già era più vulnerabile.
Chi si poteva permettere di lavorare in smart working e chi no – dovendo spesso usare mezzi di trasporto stracolmi e rischiare la vita per i cosiddetti beni e servizi essenziali.
Ragazzi che avevano una camera, un computer e a volte pure un tablet per la didattica a distanza (DAD), mentre per altri il processo di apprendimento si è brutalmente interrotto, causa la mancanza di una connessione decente e/o una stanza da dividere con fratelli, sorelle, genitori. Secondo un’indagine della Global Campaign for Education Italia, la DAD ha aumentato le differenze fra gli studenti di scuole medie e superiori e circa il 60% è rimasto indietro con compiti e lezioni. E ancora, regioni che cambiavano colore non tanto e non solo per aumenti significativi dei casi, ma perché avevano così pochi posti letto in terapia intensiva che si è dovuto fermare tutto: ricordiamo la Calabria in zona rossa?
Pre e post pandemia: tutto cambia, nulla cambia
Dunque la pandemia ha aumentato disuguaglianze esistenti, andando ad accelerare una tendenza ben radicata in Italia, e più in generale nei paesi occidentali, dove il divario tra ricchi e poveri è aumentato. Quasi ovunque questo aumento dalla seconda metà degli anni ’80 non è casuale, ma coincide con il periodo in cui si iniziavano a vedere i primi effetti delle politiche neoliberali, adottate in modo massiccio e trasversale in diversi paesi, sviluppati ed emergenti. Politiche che hanno contribuito ad annientare il ruolo dello Stato, e di conseguenza la fiducia nelle istituzioni, sempre meno preposte a tutela della giustizia sociale e sempre più attive neldifendere concorrenza e libertà di movimento dei capitali. Un individualismo metodologico che ha presto impregnato scelte politiche e strategiche, verso un orizzonte di società che non si riprometteva più di favorire condizioni eguali di partenza, quanto piuttosto un continuo supporto alla depoliticizzazione della società e del sistema economico.
La situazione dopo un anno e mezzo di pandemia è critica. Mentre i licenziamenti aumentano di giorno in giorno, lasciando lavoratori e famiglie senza certezza di futuro, siamo sempre più diseguali. Quando i costi cadono trasversalmente sulla collettività, vuol dire che vengono pagati da chi ha di meno. Ad esempio, la notizia di un aumento delle bollette del 40% costituisce un’altra ‘non livella’, che peserà molto di più su chi ha meno.
È stato fatto poco per contrastre l’aumento del divario sociale ed economico, ma anche quel poco è stato ferocemente attaccato. Continua la lotta spietata di molti politici e giornalisti contro il Reddito di Cittadinanza, una misura che si aggira sui 530 euro (di media) al mese e che ha permesso di tamponare un aumento della povertà estrema – e dunque della diseguaglianza – in questi mesi difficili.
All’interno di questi divari che aumentano e persistono, alcuni stanno peggio di altri. Permane, infatti, in Italia una forte disuguaglianza geografica, di reddito, di razza e di età. Chi vive al Sud e nelle periferie sta peggio di chi vive al Nord e nei centri storici. Se sei un uomo bianco, sui 50-60 anni hai molte più probabilità di essere in una condizione di reddito favorevole rispetto a una coetanea donna, a coetaneo straniero, e a un giovane.
Dati: quanto diseguali siamo?
I dati raccontano in dettaglio questa situazione drammatica, ben prima della pandemia. Ad esempio, nel 2019, la diseguaglianza di redditi era più elevata in Italia che negli altri grandi paesi europei posizionandoci in 19esima posizione nella graduatoria degli UE28. Si aggiunge la dimensione familiare, con il reddito totale dei nuclei familiari ricchi di sei volte maggiore a quello dei meno abbienti, e la popolazione a rischio povertà ed esclusione sociale del 25.6%.
Tutto ciò si riflette nell’indice più comunemente utilizzato per misurare la povertà, l’indice di Gini che è aumentato nelle ultime due decadi nella maggioranza dei paesi occidentali, in Italia passando dallo 0.28 nel 1985 allo 0.32 del 2019 (elaborazione Openpolis dati Eurostat).
Un altro dato interessante è il coefficiente Palma che misura il rapporto tra il 10% della popolazione che ha di più e il 40% della popolazione che ha meno. In questo modo si riesce meglio a catturare cosa succede agli estremi della distribuzione, estremi che si sono polarizzati sempre di più: l’Italia ha un coefficiente Palma dell’1.73 – un’analisi Oxfam ha indicato 1 come il valore da non superare. Una scala mobile che funziona sempre meno, rendendo sempre più difficile uscire dalla classe sociale in cui si è nati.
Ancora più critica è la situazione se si guarda al divario tra uomini e donne. Dopo una parziale riduzione della diseguaglianza di genere negli anni ’70 – anche grazie alle numerose conquiste dell’epoca – la tendenza si inverte nel 2005 con un aumento delle disparità dovuto ai ruoli ricoperti. Secondo dati forniti dall’OCSE, in Italia le donne guadagnano circa il 19% in meno rispetto agli uomini, e tendono a essere presenti in lavori meno sicuri, più nei servizi e meno nella manifattura, più nel part time, troppo spesso involontario. A ciò si aggiungono le lunghe ore non pagate e svolte prevalentemente dalle donne nei lavori di cura.
Dati: chi sta peggio?
È difficile, complesso e forse poco utile fare una classifica delle diseguaglianze in Italia. C’è però una dimensione trasversale importante che, sebbene non esclusiva, racconta un bel pezzo di storia sulla diseguaglianza in Italia: la distanza geografica, quella per cui ancora oggi un cittadino in Calabria e un cittadino in Emilia-Romagna non godono della stessa attenzione medica, degli stessi asili nido, delle stesse scuole, della stessa spesa pro capite, delle stesse opportunità.
Il rapporto dell’osservatorio SVIMEZ, che ogni anno tira le fila di come il divario tra Nord, Centro e Sud del paese sta evolvendo, nel 2021 ha confermato un paese che corre su due binari diversi. Innanzitutto, la spesa pubblica pro capite al Nord è superiore di 4000 euro rispetto al Sud, e se osserviamo i servizi socio-educativi per bambini da 0 a 2 anni, la spesa è pari a 1468 euro nelle regioni del Centro, a 1255 euro nel Nord-Est per poi crollare ad appena 277 euro nel Sud. Sempre nell’ambito dell’infanzia i posti autorizzati per asili nido ed altri servizi rispetto alla popolazione di riferimento sono il 13,5% nel Mezzogiorno ed il 32% nel resto del paese.
Se ci spostiamo di grado scolastico e si osservano i dati sul tempo pieno, il Centro-Nord ha una copertura del 46%, il Sud del 16% con picchi di appena il 7% in una regione come la Sicilia. Non avere asili nido significa disincentivare le donne a lavorare, che culturalmente e socialmente rimangono coloro alle quali è spesso affidata – in misura maggiore quando non esclusiva – la crescita dei figli, oltre a non garantire un servizio a cui dovrebbero avere accesso tutti i bambini e le bambine del paese.
Ma è forse l’ambito sanitario quello dove si sono accesi di più i riflettori nell’ultimo anno e mezzo. Tralasciando un istante la pandemia, uno degli aspetti più importanti del diritto alla salute riguarda la prevenzione attraverso gli screening1. La prevenzione aiuta le aspettative di vita, migliorandone la qualità. Nel 2017, la regione con il punteggio peggiore, pari a 2, è stata la Calabria, mentre Liguria, Veneto, Provincia Autonoma di Trento e Valle d’Aosta sono le regioni con il punteggio più alto, pari a 15. La diseguaglianza territoriale e sanitaria si rispecchia nei cosiddetti Livelli Essenziali di Assistenza, che dovrebbero garantire la traduzione giuridica della “eguaglianza delle opportunità” nel nostro Paese: in questo caso si oscilla tra i valori massimi di 222 punti del Veneto e 221 dell’Emilia-Romagna e i minimi di 170 di Campania e Sicilia, e di appena 161 della Calabria.
Questi dati sono importanti perché sottolineano come la diseguaglianza crescente passi per politiche neoliberali, di tagli e austerità, che hanno costruito solide basi per la privatizzazione dei servizi essenziali, con la logica del privato più efficiente del pubblico. Avere un paese diseguale, con un divario sempre più ampio, è un ostacolo alla crescita che è più stabile quando condivisa a più livelli sociali.
Uno sguardo in avanti
La forbice della diseguaglianza che si allarga non è un fenomeno statico, ma dinamico e reversibile. Innescare un cambiamento, un’inversione di rotta, dello status quo sembra sempre più difficile. Come spesso abbiamo detto il ritorno alla normalità per un post pandemia deve assomigliare sempre più a un rinnovamento sociale e sempre meno a un ritorno a qualcosa che presentava già forti elementi di distorsione, e di ingiustizia sociale. Innescare un cambiamento è complesso, soprattutto perché i risultati tendono a essere sul medio-lungo periodo (quando arrivano!), eppure qualcosa può essere fatto, qualcosa che abbia un impatto più immediato e che porti i più a stare meglio, a vivere una vita più dignitosa. Ad esempio, è necessario che chi guadagna di più paghi di più, iniziando a restituire alla società parte di ciò che (anche e soprattutto) chi sta in alto ha ricevuto nel tempo. Una riforma della tassazione, per disinnescare quel meccanismo che ha portato l’1% più ricco della popolazione a possedere il 70% della ricchezza, e che impone i primi scaglioni a partire dai 15,000 euro lordi, rendendo la progressività un lontano miraggio.
Un’altra contraddizione da cui è necessario liberarsi riguarda il lavoro. In Italia abbiamo l’11% dei lavoratori che vive sotto la soglia di povertà, pur lavorando regolarmente. Un salario minimo ex lege risolverebbe i troppi contratti non tutelati a livello sindacale o mal tutelati (ad esempio sotto i 5 euro lordi l’ora!), e mitigherebbe la pressione al ribasso sui salari, divenuti l’unica variabile dipendente nel deserto di politica industriale italiana.
La salute, prima e per tutti
Nella speranza di essere sull’uscio di questa pandemia, dobbiamo provare a tornare a quelle giornate di marzo e aprile 2020, quando gli eroi – i medici e gli infermieri – venivano applauditi, i tagli e l’austerity sembravano un lontano miraggio. Finalmente la consapevolezza che sulla salute non si può scendere a compromessi. Ecco, non possiamo permetterci di tornare indietro, abbiamo bisogno di un maxi piano di assunzioni pubbliche per garantire a tutti il diritto a essere curati, indipendentemente dal luogo in cui si è nati.
Avere medici di base, specialisti, e ospedali sul territorio non è un lusso, è la base della nostra democrazia.
1 Prestazioni generalmente offerte alla popolazione target in modo del tutto gratuito, tramite campagne delle ASL.
* Guendalina Anzolin è ricercatrice in economia politica al King’s College di Londra e Honorary Research Fellow presso l’Institute for Innovation and Public Purpose di Londra. Ha portato a termine un dottorato presso l’Università di Urbino dove si è occupata di politica industriale e diffusione delle tecnologie di ultima generazione, con un focus sul settore dell’automotive. Ha svolto attività di consulenza per organizzazioni internazionali quali l’Interamerican Development Bank, il Joint Research Center della Commissione Europea, e l’organizzazione della Nazioni Unite che si occupa di sviluppo industriale (UNIDO). È giornalista pubblicista e ha collaborato con diverse testate nazionali su temi economici e di migrazione, tra cui “Internazionale”, “il manifesto”, “Altreconomia”, “Jacobin Italia”.