Sette idee per il movimento sindacale degli anni ’20 (del XXI secolo)
Paolo Ferrero
Nel luglio del 1979, non ancor a diciannovenne, in una magnifica giornata di sole, sono entrato a lavorare in Fiat come operaio. Entrando e pensando a quanto sarebbe cambiata la mia vita, mi ero ripromesso di fare il giro del mondo in barca a vela quando, 35 anni dopo, sarei andato in pensione.
Nel novembre scorso, a 62 anni, dopo 43 anni di lavoro, sono finalmente andato in pensione. Nel frattempo la Fiat mi aveva sbattuto in cassaintegrazione sulla base di un accordo molto negativo che le organizzazioni sindacali e il PCI avevano salutato come una vittoria; nell’84 avevo organizzato le lotte degli autoconvocati contro il taglio della scala mobile; nello stesso periodo, la campagna referendaria, nel ’92 quelle contro l’abolizione della scala mobile, organizzando la contestazione al sindacato e ai suoi gruppi dirigenti nazionali (che avevano preso l’abitudine di fare i comizi protetto dietro a scudi di plexiglas). Potrei proseguire, ma la mia storia lavorativa, sindacale e politica, è la storia di una sconfitta clamorosa delle classi lavoratrici italiane. Da ultimo, è forse utile segnalare che dopo aver fatto il Ministro, quando rientrai a lavorare in Regione Piemonte a part-time nel 2010, un compagno della CGIL mi chiese di riprendere la tessera, che avevo da giovane in fabbrica. Gli dissi che l’avrei presa alla prima assemblea a cui sarei stato convocato… La tessera della CGIL l’ho ripresa l’anno scorso per fare le pratiche di pensione, perché in una decina di anni di lavoro non ho visto un’ assemblea sul mio posto di lavoro…
Ho l’impressione che quanto è successo a me sia successo a milioni di altre persone. Io ovviamente cercherò di fare ugualmente il giro del mondo in barca a vela, ma certo non è andato tutto bene…
Vorrei quindi, qui di seguito, provare a ragionare su come tutto questo è potuto accadere e su come provare a uscire da questa situazione.
Io penso che la sconfitta sindacale abbia innanzitutto una ragione ideologica, di mancata autonomia culturale e politica delle organizzazioni sindacali dai padroni, dai governi e dai partiti.
Tutta la linea dei sacrifici cominciata nella seconda metà degli anni Settanta e culminata nella firma dell’abolizione della scala mobile nel ’92 è un esempio da manuale della subalternità dei vertici sindacali dell’ideologia dell’avversario di classe, del liberismo. Parimenti, nel corso degli anni Ottanta, il miglior sindacato di classe dell’Occidente non ha saputo resistere all’offensiva liberale portata in particolare dall’occhettismo (prima e dopo il cambio di nome del partito) e ha abbandonato ogni concezione di classe a favore dell’ideologia dei diritti dei cittadini, optando per il “cittadino lavoratore”. Su questo abbandono della lettura classista della realtà, e nella palese inefficacia dell’impostazione liberale, si sono poi innescate tutti i devastanti sottoprodotti che hanno aperto le porte della classe lavoratrice alle destre: l’aziendalismo subalterno, il corporativismo – inteso proprio nel senso fascista – il nazionalismo, il razzismo, il “si salvi chi può”…
A questa incapacità del sindacato di mantenere un proprio profilo di autonomia culturale classista ed antiliberista – non è successo in Germania, Inghilterra, Francia, Spagna, e in queste dimensioni nemmeno negli Stati Uniti – si è sommata una totale subalternità al quadro politico attraverso la nozione del “governo amico” introdotta dal bipolarismo. Così l’assenza di autonomia sindacale dalla narrazione delle classi dominanti è diventata completa e l’efficacia dell’azione sindacale nulla.
Mi è chiarissimo che la globalizzazione neoliberista – dall’internazionalizzazione dell’economia alla precarizzazione del lavoro – ha indebolito strutturalmente il sindacato, ma non possono non vedere come in vari settori che non sono sottoposti alla concorrenza internazionale – penso alla logistica o all’edilizia – i sindacati principali non abbiano fatto nulla e organizzazioni di base anche flebili siano riuscite a determinare risultati significativi. Per non parlare del commercio, dove il processo di concentrazione è stato tale da rendere assai più facile l’organizzazione sindacale e invece assistiamo a una situazione di sfruttamento crescente. Di converso, anche in settori molto precarizzati dove è stata costruita una iniziativa, vi sono state risposte interessanti. La situazione generale della ristrutturazione neoliberista determina quindi il contesto, ma non può essere considerata una spiegazione monocausale di una situazione disastrosa che ha invece fortissimi elementi di deficit soggettivo.
A questa assenza di autonomia sindacale si sono opposti nel corso di decenni, in vario modo e meritoriamente sia varie esperienze di sinistra sindacale che alcune categorie – penso alla Fiom – che hanno contestato la linea dominante e provato a cambiare. Si tratta di un lavoro importante che non è riuscito ad invertire la tendenza generale.
Se l’assenza di autonomia ha caratterizzato i principali sindacati – a partire dalla Cgil – non si può non vedere che la nascita di numerosi sindacati di base non ha modificato il panorama della sconfitta in modo rilevante. Penso, a questo riguardo, che la mancata centralità del vincolo dell’unità di classe come nozione decisiva per la costruzione di una efficace azione sindacale, costituisca un limite assai rilevante per il complesso del sindacalismo di base. Abbiamo così una miriade di iniziative sindacali su contenuti di classe del tutto condivisibili che però non si presentano con la necessaria massa critica per essere ritenute credibili dai proletari concreti, quelli che hanno dei salari bassi e a scioperare perdono dei soldi. Il sindacalismo di base è quindi un importante fattore di controtendenza, ma non ha assunto le caratteristiche di una vera e propria ipotesi alternativa complessiva.
7 proposte
Subalternità alla narrazione dominante come dato fondamentale di chi la sconfitta l’ha gestita e scarsa attenzione al nodo dell’unità di classe di chi a questa sconfitta ha provato a opporsi: questi mi paiono i limiti maggiori che riscontriamo oggi nell’azione sindacale.
In questo contesto per forza di cose schematico e parziale, mi pare sia possibile individuare 7 filoni di lavoro politico culturale su cui provare a costruire una proposta di politica sindacale. Molti penseranno che queste riflessioni sono eccessivamente ideologiche e penso che sbaglino. Senza una idea forte e senza una narrazione che risulti egemonica, comunicabile, comprensibile e auspicabile, non è possibile alcuna lotta di classe e alcun sindacato efficace.
1) Cura dei “fili d’erba” e inchiesta. Innanzitutto si tratta di individuare e curare amorevolmente tutti i fili d’erba che spuntano nelle crepe del cemento. In una situazione in cui le contraddizioni oggettive sono enormi ,ma le difficoltà maggiori sono nella costruzione di una soggettività adeguata, ogni increspatura della pace sociale deve essere individuata, accudita e capita. Dobbiamo evitare che la sindrome della sconfitta accechi e ci faccia sprecare elementi preziosi: nella comprensione dei percorsi di insubordinazione, anche limitati, si possono ricavare elementi generalizzabili. Il tema dell’inchiesta operaia, del rimettere al centro lo studio della classe nelle sue componenti soggettive è quindi il primo punto da cui partire: chi lavora è interessante e degno di attenzione, non è un numero. Senza inchiesta non si riesce a cogliere quali sono gli elementi di controtendenza che nascono e crescono nella classe lavoratrice.
2) Classismo. La lotta culturale per costruire una moderna lettura classista della realtà è decisiva e così pure la costruzione di una narrazione che individua nella lotta allo sfruttamento la leva fondamentale delle trasformazione collettiva. Da questo punto di vista, è decisiva l’individuazione del nemico. Come diceva Marx: “i lavoratori formano una classe nella misura in cui riconoscono i propri interessi come contrapposti a quelli di un’altra classe. Per il resto essi sono l’uno contro l’altro come merci nella concorrenza”. Si tratta di un passaggio fondamentale, perché senza individuazione della divisione in classi della società non è possibile l’identificazione di un proletario con l’altro proletario, e senza questa contrapposizione e questa identificazione non è possibile la lotta di classe ,ma solo la guerra tra i poveri.
3) Unità di classe. L’attenzione alla costruzione dell’unità di classe e all’allargamento del fronte di lotta al di là delle appartenenze organizzative è un punto decisivo ,ed è il compendio di una lettura classista della realtà. Da un punto di vista comunista, nel lavoro sindacale l’organizzazione deve sempre essere funzionale alla costruzione dell’unità di classe. La nostra logica non è quella della centralità dell’organizzazione – tipica della Cisl e del sindacalismo statunitense – ma della centralità della classe e dell’individuazione dei percorsi – sovente assai tortuosi – attraverso cui passare dalla costruzione delle avanguardie alla costruzione dell’unità della classe.
4) Comunità. Nel ciclo fordista, la comunità operaia veniva costituita in primo luogo sul posto di lavoro, direttamente dall’organizzazione del lavoro, il territorio veniva dopo. Non era così a fine Ottocento, e non è cosi oggi. Oggi con il lavoro disperso, il territorio riacquista un suo spazio decisivo. Per questo, occorre costruire un lavoro sindacale che riscopra l’intreccio tra fabbrica e territorio, che riscopra i tratti del mutualismo, della solidarietà della comunità locale, delle reti di identificazione proletaria che si costituiscono sui territori. Nella coalizione sociale lanciata da Landini otto anni fa, vi era un’idea giusta di coinvolgimento della rete delle associazioni. Si tratta di andare molto oltre e di porsi l’obiettivo di costruire vere strutture di movimento sul territorio. Per questo, a mio parere, il classismo oggi deve intrecciarsi col tema della costruzione della comunità e della valorizzazione della nozione di popolo. Se popolo e comunità si saldano con il nazionalismo, sono espressioni di destra. Se comunità e popolo si saldano con una lettura classista, formano una dirompente miscela rivoluzionaria.
5) Internazionalismo. E’ evidente che la dimensione internazionale della costruzione dell’unità di classe è la più difficile, ma il superamento del nazionalismo oggi imperante non è impossibile. Anche qui il principale ostacolo è dato dalla diffusa accettazione dell’ideologia liberista che assolutizza il tema della scarsità: questa impostazione tende immediatamente a far considerare normale la guerra tra i poveri, e non la lotta di classe. La comprensione che l’unica scarsità è quella della natura, e che invece sul piano economico siamo nel regno dell’abbondanza distribuita malissimo, apre la strada alla costruzione di un nuovo internazionalismo e a nuove lotte. Il piano europeo, con la costruzione di lotte comuni di difesa delle pensioni e contro i dumping fiscali e salariali, è un primo terreno che si salda alla contrarietà all’ulteriore allargamento dell’Unione Europea e alla comune individuazione del nemico nell’1% di super ricchi che costituiscono l’oligarchia che comanda il mondo.
6) Legge e contrattazione, tutto fa brodo. L’idea che il sindacato si debba fondare sulla contrattazione e che quello legislativo sia un terreno che toglie spazio al sindacato è una idea sbagliata, che non sa leggere la storia del movimento operaio ed alla fine è subalterna alla narrazione dominante. Non a caso i padroni utilizzano tutto quello che possono per bastonarci: leggi e contratti. Proprio nella prospettiva di unificare una classe divisa, di unificare un popolo attorno alla lotta allo sfruttamento, la legge è un terreno decisivo: pensiamo alla nostra proposta odierna relativa al salario minimo ma pensiamo alla scala mobile, al ruolo dello statuto dei lavoratori o del welfare.
7) Contrattazione, partire dai bisogni reali. Se da un lato occorre puntare all’innalzamento complessivo dei diritti della classe lavoratrice, occorre parimenti costruire una contrattazione che parta dalla contraddizioni reali, concrete e vissute dai lavoratori e dalle lavoratrici. La contrattazione articolata, non come segmentazione aziendalistica della classe sul piano salariale ma al fine di mettere in discussione lo sfruttamento concreto della classe lavoratrice è un punto fondamentale. Da riprendere con spirito militante.
Le varie considerazioni che ho sopra svolto, avranno fatto nascere in un lettore attento una facile connessione: ma è quello che hanno fatto gli operai e le operaie della GKN in questi anni… Io penso che questo collettivo di lavoratori vada ringraziato perché con il proprio esempio ha mostrato una strada possibile per modificare lo stato di cose presenti a partire dalla situazione più difficile. Lo dico non solo perché, per quegli strani fili rossi della condizione operaia, alla GKN facevano la stessa produzione di giunti omocinetici e semiassi che la mia officina faceva in FIAT (proprio la stessa nel senso che la mia fabbrica è stata chiusa e spostata a Firenze, prima denominata FIAT e poi GKN). Lo dico perché da quella soggettività operaia abbiamo molto da imparare e da generalizzare.