Sono tuttx innocenti: giovani tra realtà sociale e immaginario post-pandemico
Costanza Gasparo*, Raffaella Maiullo**
Negli anni Novanta si affermava nella scena della street punk una band chiamata “Klasse Kriminale” che nel 1994 avrebbe inciso l’album “I ragazzi sono innocenti”.
Come recita il sottotitolo di questo articolo, l’argomento di cui ci occuperemo (o tenteremo di fare non senza imbarazzo per il fatto che “giovani” non lo siamo più poi così tanto) è il rapporto tra immaginario e realtà sociale in questo fantasmagorico frammento dell’esistenza che ormai non si sa più bene dove inizia e dove finisce.
Noi, per essere precise, proveremo a collocarlo in quella che canonicamente si ritiene essere l’età del/della giovane adulto/a, ovvero il periodo della vita che va dalla tarda adolescenza all’età adulta.
Per dirla in altre parole, quella fase di passaggio che va dalla fine delle labili certezze appena maturate sul chi si è e cosa si desidera all’abisso di disperazione per quelle stesse certezze che non sono più tali poiché costruite sulla base di aspettative, riferimenti culturali e condizioni socio-economiche che non sono sempre in linea con i desideri e le aspirazioni reali dell’individuo in formazione.
Ne L’arte della gioia di Goliarda Sapienza si legge a un certo punto che i vecchi spiano le mosse dei giovani con il ricatto del dubbio, e ancora che gli/le adulte/i si ritengono indispensabili perché nutriti/e da atroce paternalismo. Il nostro scopo qui è provare a commentare queste affermazioni (SPOILER ALERT! Siamo assolutamente d’accordo).
Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?
Tiriamola fuori subito questa cosa della pandemia dai, altrimenti va a finire che diventa come Nanni Moretti che deve andare a una festa e non sisaselasinotadipiùsec’èosenonc’è. Intanto vi diciamo subito che in questa breve disamina della condizione giovanile c’è eccome. Al contrario, sono i/le giovani a non essere stati/e presi/e in considerazione quando c’era (e in verità c’è ancora) da decidere se avrebbe contato qualcosa avere quest’età adesso, e come avrebbero potuto riprendersi da due anni di chiusure intermittenti, rapporti mediati e ingressi nel mondo dell’università che non avevano certo la stessa carica esperienziale di quello solito.
In tutto questo grande disagio esistenziale, la nota dolente è che non si stava meglio quando si stava meglio e cioè quando ancora la pandemia non ci aveva investito con la sua inarrestabile forza distruttrice. Nel “rapporto giovani” degli anni precedenti al 2020 l’Italia si distingueva per le numerose fragilità connesse alle disuguaglianze nei percorsi formativi, professionali e di vita delle nuove generazioni.
E dunque, ci si chiederà qual è il ruolo dell’immaginario in tutta questa faccenda. Per quanto possa sembrare che l’immaginario sia un aspetto della vita collettiva del tutto evanescente, tale forza necessita di materia per esprimersi e per estrinsecare la sua funzione al massimo.
Nel momento in cui si entra in contatto con gli oggetti (e con le persone e con i luoghi) le immagini iniziano a costruire un immaginario di riferimento ed è così che prendono forma nelle nostre teste le cose che conosciamo, gli spazi e le emozioni.
La verità è che, fino a qualche anno fa, il termine “immaginario” non era altro che un mero aggettivo per distinguere mondi e personaggi di fantasia dalla realtà. Tuttavia, la varietà di declinazioni della parola e del suo senso non si poteva limitare solo a quanto riduttivamente relegato soprattutto in una prospettiva che prende in considerazione una certa coerenza di impliciti, di non detti, di immaginati appunto.
Siamo qui a porci delle domande più che a dare delle risposte, in verità. Ci e vi chiediamo di riflettere su come e quanto l’immaginario dei e delle giovani sia stato influenzato dall’esperienza di questi ultimi due anni. Provando a dare maggiore risalto e attenzione alla fascia di età degli appena maggiorenni ci accorgeremo presto che molte cose sono state ignorate. La riflessione che salta subito all’attenzione, se vogliamo intenderla anche in chiave evolutiva sociale, ha sicuramente a che fare con il passaggio nelle retrovie di questa particolare categoria antropologica. È stato chiesto un grande sacrificio a tutta la popolazione ma una pena troppo grande l’hanno scontata proprio loro, quelli e quelle che stavano affacciandosi a un nuovo spiraglio di futuro da una porta che invece di aprirsi è stata sbattuta loro in faccia e chiusa a doppia mandata e non solo; dietro l’angolo della disperazione aleggiava anche lo spettro dell’untore/untrice che erano diventati/e.
L’aspettativa di base (è solo un’ipotesi che ci permettiamo di avanzare) era probabilmente che forse non sono stati ritenuti e ritenute così fragili, e quindi se la sarebbero cavata in qualche modo e in caso contrario va bene lo stesso.
Ti offenderesti se qualcuno ti chiamasse un tentativo?
Ma che ne sarà di loro? Delle loro aspettative e delle esperienze che non hanno fatto? Parafrasando parzialmente il testo di Pier Luca Marzo e Luca Mori, edito da Mimesis nel 2019, “le vie sociali dell’immaginario sono infinite” e quindi forse un modo di riscattare il loro futuro è sepolto da qualche parte e va solo architettato. Ma chi si preoccuperà di farlo? Il sociologo Max Weber sostiene che il sociale si manifesta nel momento in cui l’azione individuale si orienta nell’agire altrui. In altre parole, quando ogni persona dimostra anche attraverso azioni non collettive un intento che va nella direzione della complementarietà.
Ci pare di capire che procedendo nella direzione opposta all’azione sociale intesa come sopra accennato si sia andati e andate contro-natura, o meglio contro la natura umana.
Se è vero che tutte le azioni che compiamo quotidianamente sono orientate a uno scopo, per giorni e giorni, questo scopo è stato ignoto, e ancora di più rispetto a coloro che oltre a os- servare increduli genitori e genitrici che riempivano le dispense in modo spropositato e a ricevere un mucchio di informazioni contrastanti dall’istituzione scolastica (che avrebbe dovuto tutelarli e tutelarle).
In Madre Notte, Vonnegut dice che bisogna stare molto attenti e attente a quello che facciamo finta di essere perché è quello che diventeremo. In questi mesi di ripresa di ciò che eravamo, come stanno andando le cose per loro? Forse non ce lo stiamo chiedendo abbastanza perché non è abbastanza terribile il senso di vuoto che può generare l’incertezza nel proprio futuro, specie quando non ci appartiene apertamente. De André cantava “ti offenderesti se qualcuno ti chiamasse un tentativo”? Qui il tentativo non è stato nemmeno inscenato, immaginato, sperimentato. L’unico tentativo è andato nella direzione della corsa contro il tempo che impone l’accademia a qualsiasi livello, sin dalle scuole elementari. Un processo di avanzamento che ha lasciato indietro tutti e tutte a fare i conti coi loro fantasmi interiori.
In un universo parallelo dove le emozioni e l’empatia avrebbero avuto una qualche rilevanza forse si sarebbe agito diversamente senza scimmiottare la verità di prima. Un mondo dove invece di giocare alla scuola da casa in un sistema che metteva in seria difficoltà anche gli e le insegnanti intenti/e a organizzare sistemi complessi di contenimento virtuale forse avremmo avuto qualche chance.
Prima della pandemia è sempre stato rinfacciato ai e alle giovani di vivere in simbiosi con smartphone e con il computer, dimenticandosi dell’esistenza di una vita “reale”. Con la pandemia invece sono stati obbligati/ e a vivere costantemente in quel mondo definito precedentemente illusorio, spettatori di una impreparazione tecnologica del mondo che tanto li criticava. Ripensando alla loro esperienza scolastica, infatti, l’aspetto più debole è proprio la dotazione tecnologica della scuola e la capacità dei e delle docenti di adattarsi a questa. Vengono criticati non tanto i contenuti dei corsi e le competenze dei/delle docenti, ma le infrastrutture.
Il salvacondotto dell’immaginazione sociologica
La pandemia, stravolgendo la quotidianità, ha stroncato completamente il processo di immaginazione di questa parte della popolazione, rimettendo completamente in discussione la progettazione della loro vita.
Per “immaginazione” si intende la capacità di produrre immagini, mettendo in relazione la sfera del corpo e del sensibile con l’attività intellettiva, attraverso l’immagine mentale che integra la componente rappresentativa con l’aspetto affettivo-emotivo. Nel processo di immaginazione sono coinvolti il linguaggio, le sensazioni, gli affetti e le emozioni. Tra i primi filosofi, Dewey definì l’immaginazione come “il mezzo di apprezzamento in ogni campo”. L’immaginazione, dunque, non solo appartiene al mondo reale, ma ci permette anche di comprendere cosa ci sta intorno.
Tutto quello che vi abbiamo detto sembra non avere vie d’uscita, ma non staremmo qui a scrivere se non avessimo, in una qualche misura, un salvacondotto da offrire. Quale? Stiamo parlando del super potere del/della sociologo/a, cioè dell’immaginazione sociologica. La facoltà che consente al/alla sociologo/a di capire come i problemi dei “singoli” siano collegate a questioni pubbliche:
“L’immaginazione sociologica permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane. Gli permette di capire perché, nel caos dell’esperienza quotidiana, gli individui si formino un’idea falsa della loro posizione sociale. Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le grandi linee, l’ordito della società moderna, e di seguire su di esso la trama psicologica di tutta una gamma di uomini e di donne. Riconduce in tal modo il disagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici”.
* Costanza Gasparo e ** Raffaella Maiullo sono due dottorande in Mutamento sociale e politico dell’Università di Firenze e di Torino. Lavorano su tematiche diverse, ma al centro della loro ricerca ci sono sempre i/le giovani. Entrambe fanno anche parte dell’Opificio Sociologico, un’associazione che si occupa di divulgazione e ricerca sociale.
Foto in apertura: “Hommage To The Young Generation” – East Side Gallery Berlin, di Andy Hay, da www.flickr.com