TRA STAGNAZIONE E DECLINO
Francesco Garibaldo*
I dati aggregati sono impietosi: l’industria europea si divide, con l’eccezione di Danimarca, Irlanda, Grecia, Spagna, Croazia, Lituania Lussemburgo tra stagnazione e declino. Tra i più colpiti ci sono Germania , – 4%, e Italia, –7,1%, nel 2024. Sono i due maggiori paesi manifatturieri e maggiori esportatori. Particolarmente colpiti il settore dei beni capitali e quello dei beni intermedi che riflettono la difficoltà del settore manifatturiero; il settore dei servizi è invece in crescita, in particolare le tecnologie dell’informazione (ICT), i servizi di consulenza e quelli di sostegno alla produzione. I settori più colpiti sono quelli energivori con cali del 40% rispetto al 2019.Tra quelli industriali fanno eccezione il farmaceutico e le costruzioni.
Dal punto di vista del Prodotto Interno Lordo (PIL) l’area euro è al di sopra del livello pre-pandemia del 4%, ma rimane sotto del 6% rispetto al trend pre-pandemico con notevoli differenze tra i singoli paesi; i più colpiti sono Germania, Austria, Cechia, Finlandia ed Estonia.
Gli investimenti in capitale fisso dopo essere risaliti, rispetto al 2019, nel 2021 e 2022 sono tornati al livello del 2019, sia in totale che per quelli privati nel settore delle costruzioni che negli altri.
IL CUORE DELLA CRISI
Il cuore della crisi è la Germania e il suo modello di sviluppo basato sull’industria dell’auto e l’export. Come ho già avuto modo di dire in un articolo precedente, il settore dell’auto è cresciuto secondo uno schema basato sull’export; l’efficienza e la redditività di questo settore sostenevano settori meno avanzati. Questo cuore manifatturiero alimentava in tutta Europa una domanda di beni capitali, di beni intermedi e di servizi, specialmente in Italia e nei paesi dell’est. L’automotive, cioè il settore di produzione dell’auto con tutto l’ecosistema a esso collegato impiega in Europe circa tre milioni di persone. Il meccanismo si reggeva sulla Germania come esportatore netto della Cina e importatore netto della periferia orientale, mentre la Cina era esportatore netto verso la periferia orientale e importatore netto della Germania. L’ultimo tassello del sistema era la disponibilità di energia a basso costo grazie alla Russia. Da un punto di vista sociale ricordavo che “il numero di posti di lavoro legati al commercio con paesi terzi è pari a 6,8 milioni in Germania, 2,7 in Italia, 2,8 in Francia e 1,8 in Spagna e 3,750 milioni nel Regno Unito, che è un caso a sé con il 47,1 intra Ue e 52,9% extra UE, cioè il valore più alto extra UE con l’eccezione di Cipro. Francia, Regno unito, Germania, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Italia hanno 20,750 milioni di posti di lavoro che dipendono dal commercio extra UE; gli altri 21 membri della UE attorno ai 9 milioni. “
La crisi del modello sta quindi trascinando con sé larga parte dell’Europa, in primis l’Italia; innescando una crisi sociale pericolosa come dimostrano i recenti risultati elettorali
I dati sorreggono la diagnosi del rapporto Draghi sulla competitività dell’Europa poiché appare con chiarezza che la Germania, e con essa l’Europa, si è adagiata su un modello di crescita ritenuto stabile, evitando di fare i conti con le trasformazioni in corso a partire da quelle dell’industria manifatturiera; la crisi dell’export legata al Covid e alla guerra in Ucraina ha fatto il resto.
La manifattura moderna, infatti, dipende sempre di più dai servizi sia come input sia come parte del processo produttivo che come parte componente dei prodotti venduti; è il processo chiamato servitizzazione (servitization). Questo processo richiede una trasformazione sia dei processi produttivi (digitalizzazione e riorganizzazione produttiva) che della qualità e quantità degli input sotto forma di servizi: I servizi richiesti contengono i risultati di ricerche avanzate sul piano tecnologico e scientifico come, ad esempio, il riconoscimento di immagini via Intelligenza artificiale.
La disponibilità di questi servizi avanzati richiedi ingenti investimenti in Ricerca e Ricerca Applicata che a loro volta hanno bisogno di grandi capacità di calcolo. La grande capacità di calcolo si basa sulla nuova generazione di mega-calcolatori che sono energivori; il che riporta al problema della disponibilità di energia a basso costo in Europa. L’idea di basarsi solo sull’energia verde è inadeguata in termini di volumi, di qui l’interesse per la fusione nucleare calda e per quella fredda (LENR, Low Energy Nuclear Reaction; programma APRA-E) sia per l’idrogeno verde per alimentare motori a cella combustibile che come carburante, sia per la nuova generazione di micro-reattori. La scelta più avanzata è la scommessa sulla fusione; i mini-reattori hanno tempi compatibili con una netta avanzata della fusione; conviene quindi scommettere sulla fusione come fonte di energia pulita.
Vi sono poi le innovazioni di prodotto che nel caso dell’automotive riguardano i veicoli elettrici. Il cuore di questi veicoli è rappresentato dalle batterie i cui parametri critici sono peso, durata e velocità e semplicità della ricarica. La scelta europea è stata tardiva e senza convinzione, come dimostrano tutti i tentativi di restare sul tradizionale, a partire dal diesel pulito la spinta verso la neutralità tecnologica per ridurre l’emissione di CO2
L’Europa (come pure gli USA) non ha investito nella ricerca sulle batterie contando di poter usare batterie tradizionali molto pesanti per garantire una significativa autonomia di guida, dato che le auto elettriche venivano posizionate nell’alto di gamma. La Cina ha investito nella ricerca di batterie leggere e a basso costo in grado di alimentare veicoli di fascia bassa e intermedia. La ricerca ha pagato ed ora sono loro i leader mondiali. Siamo quindi di fronte a due strade sbagliate: auto costose per l’export contro auto economiche per il mercato interno e mancanza di investimenti in ricerca sulle batterie.
Di qui l’insistenza del rapporto Draghi su politiche comuni basate su fondi comuni dato l’ingente ammontare degli investimenti necessari a recuperare il tempo perduto.
L’EUROPA AL BIVIO
L’Europa è quindi ad un bivio e c’è chi ritiene che in realtà i giochi siano già stati fatti e che l’industria europea sia destinata a una continua discesa sorpassata da quella USA e da quella Cinese.
Non credo che la situazione sia disperata e finale. La prima ragione è una valutazione di quello che viene chiamato “industrial commons” (Pisano& Shih) cioè “la disponibilità congiunta di ciò che è necessario per una crescita industriale quali la Ricerca e Sviluppo, le infrastrutture manifatturiere, il know-how, lo sviluppo delle capacità professionali, le capacità tecnologiche possedute dalle imprese, dalle università e dalle organizzazioni che sostengono l’industria” (Hauge, S., p.31)L’Europa dispone in larga misura di questi “industrial commons”, in forme disaggregate; ciò che le manca è una decisione politica di coordinarli e svilupparli congiuntamente. Le manca cioè una direzione politica che deve fare i conti con un intervento multidimensionale che non può limitare al pur necessario sostegno alle imprese. Esso riguarda: il livello delle politiche macro, di quelle commerciali, della ricerca e dell’innovazione, della formazione e addestramento. C’è un evidente cecità delle imprese sia sul piano degli investimenti sia sul piano salariale, dato che i salari frenano il consumo interno che potrebbe compensare la caduta delle esportazioni; c’è una politica fiscale restrittiva. Ma se ci sarà un declino senza fine dell’industria ,ciò dipenderà principalmente sia dalla politica delle istituzioni europee che da quelle dei governi nazionali.
*Ha svolto un’attività come organizzatore sindacale in FIOM, poi direttore dell’IRES nazionale – centro studi della CGIL -, quindi direttore della Fondazione Istituto per il Lavoro. Oggi pensionato, si è sempre occupato di ricerche di sociologia industriale.