Trattasi di canzonette?
Nando Mainardi*
“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.”
Ma quanto le canzonette – la “popular music”, direbbero quelli bravi – rispecchiano la realtà sociale, culturale e politica del proprio tempo? Quanto la anticipano? Quanto la condizionano? Quanto dicono di noi e quanto nutrono l’immaginario a cui poi facciamo riferimento? Quanto sono invece una “invenzione” commerciale? Per schematizzare ulteriormente, cito due piccoli episodi che hanno a che fare con la mia vita militante e le canzonette medesime (due ambiti che, in genere, sono poco comunicanti).
Nella discussione preparatoria interna alla redazione di questo numero di “Su la testa”, Dino Greco – a proposito del rapporto tra immaginario e canzone – ha, a un certo punto, citato come particolarmente significativo un vecchio brano dei Giganti, presentato al Festival di Sanremo del 1967, Proposta: soprattutto, i versi iniziali “Me ciami Brambilla/ e fu l’uperari/ lavori la ghisa per pochi denari”. Per Dino si trattava di una piccola ma evidente “dimostrazione” dell’egemonia del movimento operaio del tempo: un giovane lavoratore “cantato” addirittura al Festival di Sanremo, ovvero il palcoscenico considerato per eccellenza impermeabile fino a quel momento alle questioni sociali e politiche che attraversano il Paese. Evidentemente qualcosa, nell’Italia di fine anni Sessanta, stava cambiando, al di là del fatto canoro. Come dargli torto? La canzone come “segno dei tempi”, dunque.
Invece, qualche settimana fa, Pino Rando, un militante a sua volta di lungo corso della sinistra di alternativa genovese, a margine di un incontro presso il Circolo Bianchini di Rifondazione Comunista, sul rapporto tra canzone d’autore e società, mi ha spiegato come, a suo parere e a partire dalla sua esperienza diretta, certe canzoni e certi cantanti abbiano addirittura, per contenuti, atteggiamenti e modi di essere, annunciato e anticipato il mitico Sessantotto. “A un certo punto, abbiamo iniziato ad assomigliare ai cantanti che ascoltavamo. La voglia di cambiare di cui si parlava in alcuni pezzi è diventata la nostra” ha detto, grossomodo, Pino, che all’epoca aveva 18 anni. La canzone, perciò, in questo caso, come “profezia”; come “causa” (sia detto tra cento virgolette) e non come semplice effetto.
Il mito dell’autore
Non credo che ci sia, tra le strade qui schematicamente delineate, un’interpretazione “giusta” in modo univoco; penso viceversa che l’ambito maggiormente percorribile sia quello della complessità. A questo proposito, nell’analisi del rapporto tra canzone, immaginario e realtà sociale, culturale politica ed economica, ci vengono in aiuto ( e per altri aspetti, complicano ulteriormente il quadro) la sociologia dei processi culturali e i cultural studies. Pensiamo a Bourdieu1, per esempio, e a quando sostiene che gli autori degli oggetti culturali (che si tratti di pittori, compositori, scrittori o cantautori poco importa) debbano essere considerati “produttori apparenti”, poiché tendono a oscurare la complessità del campo in cui essi stessi si muovono, ovvero “la struttura dello spazio sociale del tutto specifico in cui il ‘creatore’ è inserito”. Oppure pensiamo a Griswold2 e alla sua teoria del “diamante culturale”, secondo cui gli oggetti culturali (come le canzoni, appunto) vanno a loro volta contestualizzati e analizzati nel quadro di relazioni complesse, mai univoche, tra “creatore”, “ricevitore” e “mondo sociale”.
Detto molto semplicisticamente, è piuttosto limitativo pensare che la forza simbolica, il significato collettivo, la fortuna e la capacità di “fare immaginario” di una canzone o di un cantante siano unicamente riconducibili all’estro creativo del cantante medesimo, alla sola azione dell’artista che crea in solitudine, senza considerare il ruolo svolto da altri attori – come, per esempio, il pubblico o la critica musicale – nel concorrere a loro volta a tali creazione culturali. Non sempre ne siamo consapevoli. Faccio un esempio, partendo dai commenti delusi che ho letto più di una volta sui social quando Francesco Guccini ha espresso, in diverse occasioni, giudizi e valutazioni politiche moderate (a sostegno del Pd o sul 77’ bolognese), decisamente confliggenti con l’idea del Guccini “a pugno chiuso”, “lanciato a bomba contro l’ingiustizia” come la celeberrima locomotiva di sua canzone di circa cinquant’anni fa. Ma “quel” Guccini è realmente esistito? O è piuttosto – perlomeno in parte – una creazione un po’ proiettiva del suo pubblico, che ha deciso di associarlo per sempre a una manciata di brani politicamente impegnati e schierati, scegliendoli arbitrariamente da un repertorio ricchissimo? Non è forse lui che, a un certo punto, in tempi altrettanto lontani, ha cantato che non è vero che “a canzoni si fan rivoluzioni”, provando a smarcarsi da un’eccessiva etichettatura ideologica? Perciò, appunto, la percezione e la costruzione pubblica, collettiva e culturale di un cantante non è determinata solo dall’azione del cantante stesso o dell’autore, ma da un campo più complesso e complessivo, di cui noi stessi – il “pubblico” – facciamo parte e a cui concorriamo, e da cui siamo al contempo influenzati.
Detto questo, ora provo ad analizzare brevemente, per fare qualche ulteriore esempio, cinque eventi connessi alla parabola della canzone italiana…
Vola colomba (1952)
Il pezzo in questione, presentato vittoriosamente al Festival di Sanremo da Nilla Pizzi, è decisamente emblematico di ciò che era la canzone negli anni Cinquanta: erede della tradizione musicale del melodramma, composta in un italiano “pseudo-aulico” e distante anni luce dalla lingua parlata (l’incipit è “Dio del cielo/se fossi una colomba”). È allo stesso tempo anche il massimo esempio di come la “musica leggera” dell’epoca potesse veicolare, sotto una scorza di apparente neutralità, “valori” politici e riferimenti all’attualità, in sintonia con il sentire delle classi dominanti. Vola colomba, infatti, si richiama in tutta evidenza alla rivendicazione italiana di Trieste, allora ancora “Territorio Libero”, per quanto la causa irredentista, nel testo, non venga mai chiaramente esplicitata. Il brano procede piuttosto per allusioni, animando un sentimento malinconico e al contempo speranzoso di un prossimo ricongiungimento (“Tutte le sere m’addormento triste/e nei sogni piango e invoco te/Pure il mio vecio ti sogna/pensa alle pene sofferte/piange e nasconde il viso tra le coperte”….”Diglielo tu che tornerò”). Si tratta di una canzone impensabile se “sconnessa” dalla cupa stagione del centrismo democristiano degli anni Cinquanta.
Nel blu dipinto di blu (1958)
È il brano più rivoluzionario della storia della musica leggera di casa nostra. “Rivoluzionario” non da un punto di vista politico o ideologico, ovviamente, ma per la sua capacità di modificare significativamente e riorganizzare il campo della canzone. Per diverse ragioni: poiché Modugno, con esso, dimostra per la prima volta che una canzone può essere cantata dal suo autore (fino ad allora c’era stata una rigida divisione del lavoro tra interprete, paroliere e musicista) e vincere il Festival di Sanremo; poiché evidenzia che un brano musicale può diventare un grande prodotto di massa (ne sono state vendute 22 milioni di copie in tutto il mondo); poiché afferma un’idea di cantante totalmente diversa e “moderna”, che “vive” passionalmente e teatralmente la canzone che interpreta, mentre generalmente i cantanti eseguivano, in quegli anni, “neutralmente” i pezzi che presentavano, badando solo al virtuosismo canoro. L’affermazione di Nel blu dipinto di blu, inoltre,è tale che è diventata, retrospettivamente, il simbolo di un’epoca: la freschezza e l’esplosione vocale che caratterizzano il pezzo sono state associate, in una lettura “ottimistica”, alla dinamicità di un Paese che stava cambiando e modernizzandosi. Non a caso, il suo successo è reso possibile dallo sviluppo dell’industria discografica di quegli anni (il passaggio dalla gommalacca al vinile; dai 78 giri ai 33 giri e 45 giri; la nascita e lo sviluppo di diverse etichette discografiche; la crescita impetuosa delle vendite).
Festival di Sanremo del 1967
Si tratta di un’edizione del Festival che lascia una traccia indelebile nella storia della canzone italiana. Non per i brani in gara (alcuni dei quali, seppure con modalità furbette, alludono alla contestazione giovanile che comincia a intravedersi, come La rivoluzione di Gianni Pettenati), ma per un tragico episodio ai margini della competizione: Luigi Tenco, escluso dalla serata finale, si suicida. Il cantautore lascia un biglietto (riportato integralmente in apertura di questo scritto) in cui spiega le ragioni del proprio gesto, attaccando il mondo discografico e le canzoni commerciali, come quella poc’anzi citata. Il sociologo Marco Santoro ha sottolineato come la morte di Tenco debba essere interpretata come un vero e proprio “trauma culturale”, la cui percezione collettiva ha contribuito a tracciare, con una frontalità inedita, una linea di demarcazione netta tra un “prima” e un “dopo”; tra il campo delle canzoni facili e disimpegnate e quello delle canzoni di contenuto ed elevate culturalmente3. Il Festival diventa così, in modo cristallizzato, un palco impraticabile per gli esponenti di quest’ultimo campo, e al contempo prende piede la ricerca e la costruzione di spazi nuovi, come per esempio proprio il Club Tenco, che diventerà, a partire dagli anni Settanta, una vera e propria “contro-istituzione”, alternativa alla competizione sanremese. La fine di Tenco, perciò, non come causa che tutto muove, ma come “veicolo” che accelera e polarizza tendenze già presenti nel campo della canzone, anche al di là delle intenzioni e delle dinamiche effettive dello stesso autore di quel gesto (c’è, per esempio, chi da decenni sostiene che, in realtà, Tenco sia stato ucciso e non si sia ucciso, e che il famoso biglietto sia un falso).
Il processo proletario a De Gregori (1976)
Avviene a Milano, al Palalido, il 2 aprile del 1976, al temine di un concerto piuttosto movimentato e interrotto più volte: De Gregori viene obbligato da un gruppetto di autonomi a tornare sul palco. Qui viene inscenato una specie di processo: il cantautore, accusato di arricchirsi con la musica alle spalle dei lavoratori; viene invitato ad andare a lavorare in fabbrica, e a suonare solo per diletto; gli viene ricordato che la rivoluzione precede l’arte, e non viceversa. “Suicidati come Majakovskij”, pare gli venga detto. Alla fine, intervengono le forze dell’ordine che, servendosi dei lacrimogeni, sgomberano definitivamente il Palalido. Si tratta di un episodio decisamente eclatante e sconcertante – che porterà De Gregori ad abbandonare il mondo della canzone per qualche anno – riconducibile al “cortocircuito” tra alcuni settori, per quanto limitati, del mondo giovanile più politicizzato e il campo della canzone; non certo l’unico (le contestazioni nei confronti di cantanti e gruppi musicali furono numerose). Per alcuni versi, non è un caso: l’affermazione di diversi protagonisti della scena musicale passa all’epoca proprio attraverso l’internità o una qualche vicinanza ai circuiti della sinistra rivoluzionaria. Santoro scrive che, in quegli anni, “si è costruita – anche, se non soprattutto, a seguito del sacrificio di Tenco, o meglio della sua codifica come atto intenzionale di protesta – una nuova struttura culturale, centrata su un’inedita figura eroica, un personaggio carismatico a cui il pubblico, in particolare quello giovanile, chiede di agire in modo sacrale, simbolicamente puro”. I cantautori, in particolare, diventano “agenti carismatici di un movimento giovanile di protesta, se non rivoluzionario”. È in questo contesto che una parte decisamente minoritaria, ma estremamente rumorosa, di pubblico chiede a chi si esibisce davanti a un microfono una “coerenza massima”, portata all’estremo, ignorando che una canzone è cosa diversa da un volantino o da un documento politico.
Festival di Sanremo 2022
Non si è trattata di un’edizione “banale” o ordinaria. Alcuni “principi” che, storicamente, hanno egemonizzato i contenuti delle canzoni tipicamente festivaliere e della manifestazione stessa – i primati dell’eterosessualità e degli amori “a tempo indeterminato”, per esempio – sono stati significativamente incrinati. Come mai è avvenuto nelle edizioni precedenti. La partecipazione di brani come Chimica e Sesso occasionale, fino a qualche anno fa, sarebbe stata impensabile, al di là della qualità delle canzoni. Lo stesso si può dire a proposito della presenza sul palco di Drusilla Foer, indipendentemente dall’autenticità del personaggio. È un fatto ulteriormente indicativo che l’unica vera polemica sia stata innescata da un monologo del comico Checco Zalone, accusato di rappresentare in modo macchiettistico e svilente la transessualità. Ciò ci rimanda alle domande di partenza: tutto questo cosa significa? Si tratta “dell’eco” di un approccio complessivo diverso nei confronti della sessualità, dell’affettività e dell’identità di genere, e che emerge perfino nell’appuntamento canoro più “istituzionale”? O, in un qualche modo, è l’anticipazione e l’annuncio di un cambiamento che non si è ancora manifestato? Oppure il Festival va considerato come un evento separato, autoreferenziale, incapace di un qualsiasi scambio con il resto del mondo, e quindi non indica un bel niente? O forse tutte queste ipotesi contengono, seppure in modo contraddittorio, un pezzo di “verità”? Allo stesso modo, a proposito sempre di quest’ultimo Festival, possiamo rilevare l’assenza di tematiche “sociali” e “collettive”, in modo forse ancora più netto del passato (unica eccezione: i riferimenti alla crisi climatica e i pugni chiusi della Rappresentante di Lista). Del Brambilla che faceva l’operaio, che abbiamo citato in precedenza a proposito di una vecchia canzone dei Giganti presentato a Sanremo, neppure l’ombra ( e con lui intendiamo, ovviamente, le donne e gli uomini che lavorano e vengono sfruttati nelle forme attuali). Anche questo vorrà dire qualcosa…
Non traccio alcuna conclusione. Piuttosto faccio due sottolineature. La prima riguarda il carattere assolutamente arbitrario e discutibile degli episodi citati e del mio modo di interpretarli, che non rispondono a una selezione rappresentativa e con pretese di “oggettività” della storia della canzone italiana. Immagino che ve ne siate accorti già da soli, e non abbiate bisogno di un suggeritore. Ma ci tenevo a dire che, a mia volta, ne sono consapevole. La seconda, ed è il senso complessivo di quanto ho cercato di esprimere, riguarda la miriade di richiami, rimandi, riferimenti storici, politici, culturali, e pure affettivi, che prendono piede, a ragione o a sproposito, quando si comincia a parlare, in modo un po’ approfondito, di canzonette. Ecco: il nesso tra canzone e immaginario è esattamente questo.
1P. Bourdieu., Le regole dell’arte, Il Saggiatore, Milano, 2005
2W. Griswold., Sociologia della cultura, Il Mulino, Bologna, 2005
3M. Santoro., Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore, Bologna, Il Mulino, 2010
*Nando Mainardi è componente della Direzione Nazionale del Prc. In questi anni ha scritto alcuni libri su cantanti, cantautori e canzoni.