Un po’ di fantascienza
Luca Malgioglio *
Nel 2033 al Salone di Merryland c’è stata l’iniziativa DDDT, sotto il patrocinio di John Brown, già presidente del FARE (un carrozzone burocratico sulla “ricerca didattica” tenuto in piedi a forza): lì si è teorizzato per la prima volta, sulla base di discutibilissime teorie, che fosse indispensabile modificare gli “ambienti di apprendimento”. Lo si è deciso in realtà anche su spinta del lobbista Georg Stephen, CEO di Rieducational group, società che distribuisce arredamenti per i nuovi “ambienti di apprendimento”. Da quel momento in poi le scuole che volessero partecipare a bandi con finanziamenti (RON) dovevano acquistare arredamenti per “ambienti di apprendimento innovativi” e indurre collegi docenti riluttanti ad adottare un tipo di didattica corrispondente a questi ambienti, indipendentemente dalla loro utilità ed efficacia. Insomma, non scuole che adottano gli strumenti di cui hanno bisogno ma produttori di strumenti e arredamenti che impongono alle scuole, per via politica, una didattica corrispondente a quegli strumenti. Risultato: le disastrose classi B.1, in cui si lavorava con strumenti interamente digitali…
La digitalizzazione della scuola, il PNRR e la “Scuola 4.0”
Usciamo dalla fantascienza e veniamo alla situazione della scuola italiana ai tempi del PNRR. Il punto fondamentale è che non c’è un’esigenza o un’emergenza didattica per cui le scuole chiedono strumenti digitali, cosa che ovviamente nessuno esclude a priori. È il contrario: si dice che queste esigenze ci sono prima che le scuole chiedano nulla (e probabilmente molte chiederebbero altro, a partire dalla sistemazione di edifici fatiscenti e la riduzione del numero di studenti per classe). Gli insegnanti non vengono minimamente interpellati, forse perché direbbero che gran parte dei due miliardi di euro spesi a debito con il PNRR per la digitalizzazione della didattica, per strumenti a rapidissima obsolescenza, non sono così indispensabili per il loro lavoro. Sembra insomma che l’adozione di strumenti digitali per “ambienti di apprendimento innovativi” venga promossa non perché le scuole ne abbiano davvero bisogno ma per distribuire soldi di cui si è decisa a priori la destinazione.
La storia non comincia oggi: la conquista digitale della scuola ha avuto un punto di svolta a Genova nel 2013, con l’evento della Fiera “ABCD+orientamenti”1. Attorno alla digitalizzazione sono nate realtà come Impara digitale, C2Group e Campus Store e hanno cominciato a prosperare aziende che importavano “ambienti di apprendimento innovativi”.
Proprio in quegli anni è stata lanciata la sperimentazione delle classi 2.02: in pratica classi senza libri, con sedute “innovative” monoposto, che lavoravano solo con strumenti digitali. I risultati di queste sperimentazioni sono stati pessimi ed è difficilissimo trovarne resoconti esaurienti: certo, sarebbe stato difficile dopo questo fallimento insistere con la retorica del digitale come panacea di tutti i mali.
Altre smentite all’ideologia per la quale il digitale, nella didattica, sarebbe sempre di per sé positivo, indipendentemente dalle modalità, dalle discipline, dai contenuti e dagli scopi educativi per cui viene usato, vanno dai disastrosi risultati della “didattica a distanza” agli allarmi sui possibili danni del digitale lanciati da un’inchiesta del Senato3. Sembra però che gli interessi economici offuschino le obiezioni e che un certo fanatismo abbia cancellato l’idea di un uso sensato, creativo e consapevole degli strumenti digitali.
Ora, con i fondi del PNRR e il “Piano scuola 4.0”4 il fenomeno assume dimensioni macroscopiche. Ogni scuola infatti riceve cifre fino a centinaia di migliaia di euro, l’80 per cento dei quali devono essere spesi in “innovazione digitale”. I vincoli di spesa di questi fondi sono molto stringenti: le scuole cioè non possono spendere per le proprie priorità ma solo per alcune voci ben precise (“classi 4.0”, laboratori multiverso, “ambienti di apprendimento innovativi”…). Questi soldi – a debito per le future generazioni – devono essere spesi anche se non servono: altrimenti, si dice, si rischia il commissariamento.
Che un Consiglio d’Istituto rifiuti i soldi del PNRR, utilizzabili solo per progetti giudicati inutili o controproducenti, come è accaduto al liceo Pilo Albertelli, fa scalpore proprio per questo: mostra che è ancora possibile pensare prima di “fare” e crea un precedente5.
Economia e ideologia
Probabilmente, oltre alle evidenti ragioni economiche che sono alla base dei progetti di “Scuola 4.0”, sono qui presenti anche delle motivazioni che potremmo definire ideologiche.
La religione del digitale in realtà ha molto a che fare con il controllo: impedisce che il lavoro sulle conoscenze prenda direzioni imprevedibili, visto che pacchetti didattici preconfezionati, in cui tutto è già previsto, impediscono qualunque rielaborazione originale delle conoscenze, derivante dal lavoro della classe insieme all’insegnante; in pratica, impediscono l’esercizio del pensiero, che privo della libertà soffoca.
Questa funzione del digitale nella sua versione totalitaria – ridurre gli spazi del pensiero, annullandone l’imprevedibilità – a ben vedere va nella stessa direzione di altri fenomeni analoghi:
la sostituzione delle conoscenze, che nella loro ricchezza possono prendere nella mente degli studenti direzioni imprevedibili, con le “competenze”, cioè un “saper fare” determinato a priori che ha sempre meno a che fare con il pensiero (tanto che si parla ormai di “competenze non cognitive”) e sempre di più con l’addestramento;
l’eliminazione della contestualizzazione storica, che sola permette di relativizzare il presente attraverso il confronto con realtà diverse da quella attuale e apre all’idea del futuro;
la sostituzione dell’immaginazione e del suo potere trasformativo con un bombardamento di immagini date (emblematici i visori messi sulla faccia degli studenti, invece della valorizzazione delle relazioni umane), o con i “compiti di realtà” che dovrebbero prendere interamente il posto del pensiero astratto6;
lo svuotamento delle discipline letterarie, artistiche, scientifiche, filosofiche, storiche, la cui unica validità accettata non è quella non di ampliare il campo della conoscenza di sé e della realtà, ma di essere semmai complementari – dopo essere state polverizzate e sciolte in un minestrone interdisciplinare privo di ogni contestualizzazione – all’addestramento a “competenze non cognitive” o a un “orientamento” sempre più precoce, che ripropone all’infinito agli studenti la realtà in cui sono immersi7.
Perché tutto questo? Probabilmente per i “riformatori” è impossibile immaginare un futuro diverso dal presente: gli studenti sono “capitale umano” da profilare e da abituare precocemente a essere delle monadi isolate e adattabili a tutte le richieste di un mondo del lavoro sempre più fluido e precario. Per i pochi che impongono a tutti gli altri le loro decisioni, il mondo sarà e dovrà essere sempre più così, fatto di utenti, clienti, individui soli con i propri device e forza lavoro adattabile e dequalificata, anziché di cittadini colti, istruiti e consapevoli, capaci di vivere la socialità e la solidarietà umana. Non dimentichiamo che tra gli aspetti distopici della scuola 4.0 c’è l’intenzione di smantellare anche i gruppi-classe, oltre alla relazione intergenerazionale studenti-insegnanti.
Cosa contestare concretamente
In sintesi, quali sono i punti deboli o inaccettabili del progetto “Scuola 4.0”?
1) I bandi per i fondi PNRR sono complessi: piuttosto che scriverli, moltissime scuole si stanno affidando ad aziende che, a prezzi in rapida ascesa, offrono pacchetti didattici preconfezionati (arredi, piattaforme digitali, programmi, contenuti) che tolgono ogni spazio alle decisioni sulla didattica da parte dei docenti;
2) Gran parte dell’ “innovazione digitale” passa per le piattaforme delle aziende GAFAM, Google, Microsoft, Facebook, Apple. E qui si aprono varie questioni:
– mentre il compito della scuola è quello di istruire e insegnare a pensare, quello di queste aziende è vendere, fidelizzare dei clienti e rendere l’uso dei loro strumenti sempre più irrinunciabile. I loro scopi sono insomma inconciliabili con quelli che dovrebbero essere alla base dell’istruzione pubblica;
– queste piattaforme non assicurano la privacy degli studenti e la tutela dei loro dati. Quelle statunitensi infatti hanno l’obbligo della tutela per i cittadini americani ma non per quelli europei;
– una norma impone agli enti pubblici di utilizzare piattaforme libere e gratuite. Il ricorso a piattaforme private è permesso solo nel caso in cui per i servizi necessari non ci siano piattaforme pubbliche/gratuite disponibili. Questa comparazione non viene effettuata praticamente da nessuna scuola e quasi tutte si affidano ad aziende private.
La stessa piattaforma ministeriale per l’ “innovazione”, chiamata “Futura”8, sembra voler imporre dall’alto metodologie e contenuti dell’insegnamento. Qui si pone ancora una volta la questione dell’articolo 33 della Costituzione (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”): non dimentichiamo che la libertà di insegnamento non è un diritto degli insegnanti ma un loro preciso dovere costituzionale, quello di resistere a qualunque tentativo totalitario di strangolare il pensiero, l’arte e la scienza e di asservirli a esigenze economicistiche, a interessi privati o a quelli di un potere fine a se stesso.
1) Per una rassegna stampa dell’epoca si veda https://www.indire.it/quandolospazioinsegna/rassegna_stampa.php. Tra l’altro, su INDIRE cfr. https://www.roars.it/dopo-linvalsi-ora-tocca-allindire-bacchettate-dalla-corte-dei-conti/
2) Si veda ad esempio una circolare dell’allora incensurata funzionaria ministeriale Giovanna Boda in cui, tra le iniziative di ABCD, c’è proprio un punto dedicato alle classi 2.0
3) https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/docnonleg/42324.htm
4) https://pnrr.istruzione.it/avviso/scuole-4-0-scuole-innovative-e-laboratori/
6) Non è un caso che in grandi romanzi distopici come 1984 di Orwell e Fahrenheit 451 di Bradbury la mancanza di ogni alternativa al presente sia suggellata dalla distruzione del passato (cancellato in Fahrenheit e riscritto secondo le esigenze del presente in 1984) e dall’immersione in un mondo di immagini imposte e riproposte in continuazione. Sulla dicotomia immagini/immaginazione cfr. le riflessioni di Italo Calvino in “Visibilità” (Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988).
7) Sulla funzione fondamentale della scuola e dell’insegnamento, di superamento – grazie all’intervento dell’altro rappresentato dall’insegnante – dell’orizzonte di senso in cui gli studenti sono imprigionati, si veda il preziosissimo saggio di Gert J.J.Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022.
8) https://pnrr.istruzione.it/
* Insegnante di Lettere in un istituto superiore di Roma, è membro fondatore del gruppo “La nostra scuola” e presidente dell’associazione “Agorà 33”.