Una stagione ribelle declinata al futuro
Marco Bersani*
L’anteprima: l’insurrezione zapatista
Quando si parla di movimento altermondialista e contro la globalizzazione neoliberale, la data di nascita va collocata al primo gennaio 1994, quando nel Chiapas, la regione messicana al confine con il Guatemala, in concomitanza con l’entrata in vigore del NAFTA (North American Free Trade Agreement), un accordo di libero scambio tra Messico, USA e Canada, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) guidò la sollevazione indigena, con l’occupazione di cinque municipalità, compreso il capoluogo San Cristobal de Las Casas, da dove il Subcomandante Marcos, portavoce del movimento, lesse la “prima dichiarazione della Selva Lacandona”.
Dopo 12 giorni di scontri, con oltre 300 morti, l’allora presidente messicano Carlos Salinas de Gortari, accettò la proposta dell’EZLN di un dialogo con la mediazione della diocesi di San Cristòbal, e, tre anni dopo, gli zapatisti ottennero, con gli accordi di San Andres, un alto grado di autonomia dei municipi indigeni autogovernati dalle “giunte del buon governo”.
Quella che fu immediatamente interpretata dai mass media come un colpo di coda delle lotte anti-coloniali della seconda metà del secolo scorso, era in realtà la prima sollevazione rivoluzionaria contemporanea, capace di creare un ponte fra la storia delle lotte dell’Ottocento-Novecento e il nuovo millennio che stava arrivando.
Dopo aver proclamato, con la caduta del muro di Berlino, la “fine della storia”, il capitalismo si è improvvisamente trovato di fronte a un nuovo inizio, esattamente là dove tutto era cominciato con la conquista coloniale dell’America Latina.
Da allora, la lotta zapatista è stata unanimemente considerata dai movimenti sociali come un punto di riferimento politico e culturale, e, nonostante si espresse lateralmente al percorso dei grandi movimenti sociali di inizio millennio, costituì un asse portante dell’esperienza altermondialista, sia per la straordinaria capacità comunicativa, sia perché, non essendo direttamente riconducibile né all’esperienza social-comunista né a quella della nuova sinistra, consentiva di superarle entrambe, evitando, non di rado, di fare i conti con le vicende della sinistra novecentesca.
Il salto di qualità di Seattle
Il 30 novembre 1999 si tenne a Seattle il biennale incontro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), l’organismo internazionale che perseguiva la piena liberalizzazione del commercio e degli investimenti, mettendo al centro i profitti delle multinazionali e trasformando diritti del lavoro, diritti sociali, beni comuni e ambiente in variabili dipendenti dagli stessi.
Non era la prima volta che le grandi organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Wto) si riunivano per decidere i destini del mondo. E, ormai da diversi anni, ad ogni incontro i movimenti sociali si davano appuntamento per produrre dei contro-summit, nei quali dimostrare come la strada proposta dai grandi poteri finanziari, industriali e politici non fosse l’unico orizzonte possibile, bensì ci fossero alternative reali da mettere in campo, invertendo la rotta e abbandonando la dottrina dominante del pensiero unico del mercato.
Ma quella volta si realizzò un decisivo salto di qualità, perché i movimenti non si limitarono a giustapporsi al vertice ufficiale, bensì ne contestarono direttamente la legittimità, impedendone concretamente la realizzazione, occupando con i propri corpi il centro della città, le principali strade di collegamento, gli hotel che ospitavano i delegati. Vi furono scontri molto duri che durarono giorni, ma alla fine i movi- menti vinsero e l’incontro ufficiale del Wto fu annullato.
In quell’occasione, si palesò al mondo intero anche l’inedita composizione di quello che poi fu correttamente denominato il “movimento dei movimenti”: un’alleanza trasversale che vedeva contrapporsi alle politiche liberiste messe in campo dal Wto sindacati preoccupati dalla competizione sleale della manodopera straniera a basso costo, ambientalisti critici verso la pratica di dare in appalto le lavorazioni inquinanti, gruppi di protezione dei consumatori preoccupati dalle importazioni che violavano gli standard di sicurezza, attivisti per i diritti dei lavoratori turbati dalle cattive condizioni di lavoro negli altri paesi, e attivisti di sinistra di varie sfumature, accomunati dall’opposizione al capitalismo.
Con gli scontri di Seattle, per la prima volta fu messa al centro la questione della democrazia e, di fronte a una globalizzazione liberista che spostava le decisioni in luoghi sempre più estranei alle sedi elettive, le piazze si prefissero l’obiettivo politico di bloccare fisicamente la realizzazione dei vertici. Era nato un nuovo movimento internazionale.
Da Seattle a Porto Alegre
Rotto l’argine a Seattle, ogni vertice successivo divenne meta di contro-vertici dal basso e di contestazione della legittimità stessa dei vertici dei potenti: fu così a Washington nell’aprile 2000 (vertice G7 e riunioni di Fmi e Banca Mondiale), a Praga nel settembre 2000 (vertice Fmi e Banca Mondiale), a Montreal nell’ottobre 2000 (G20), a Nizza nel dicembre 2000 (Consiglio Europeo).
Ma non si praticò solo la radicale contestazione luogo per luogo: nel gennaio 2001 si riunì a Porto Alegre, in Brasile, il primo Forum Sociale Mondiale, che, all’interno di una cornice partecipatissima dai movimenti sociali giunti da tutto il pianeta, lanciò la sfida sull’alternati- va di società.
“Un altro mondo è possibile” era lo slogan che veniva finalmente contrapposto, trenta anni dopo, al “There is no alternative” affermato da Margareth Thatcher e divenuto la cifra del capitalismo finanziarizzato contemporaneo. Fu naturale contestare anche il Forum dell’economia mondiale che, negli stessi giorni, si teneva a Davos e riuniva i grandi interessi economico-finanziari che dominavano la globalizzazione. Nel 2001, prima di Genova, nuovi appuntamenti dei movimenti divennero Napoli nel marzo 2001 contro il vertice del Global Forum, il Quebec nell’aprile 2001 contro l’estensione dell’accordo Nafta e Goteborg nel giugno 2001 contro il Consiglio Europeo.
Il vertice di Napoli, in particolare, per il movimento italiano assunse un ruolo paradigmatico, perché dentro quelle giornate, si scatenò una repressione senza precedenti che, di fatto, anticipava quanto su scala molto più ampia sarebbe successo qualche mese dopo a Genova.
Ma i giorni di Napoli sono stati importanti anche dal punto di vista politico: mentre tutti sanno che la feroce repressione di Genova fu scatenata dal governo di destra di Silvio Berlusconi, pochi ricordano come la mattanza di Napoli fu gestita dal governo di centro-sinistra di Giuliano Amato.
Governi di diverso colore politico, ma accomunati dalla necessità di bandire con ogni mezzo necessario dalle coscienze e dalle piazze l’idea che il capitalismo non fosse il destino ineluttabile, ma che un altro mondo era possibile e quanto mai necessario.
Genova per noi
Il vertice del G8 di Genova giunse dunque in una fase di grande forza del movimento dei movimenti e l’appuntamento del luglio 2001 rappresentava il primo momento di rilevanza globale in cui l’orizzontalità della speranza di un altro mondo possibile costruita dalle lotte si confrontava con la verticalità dei poteri forti che tutto determinava, in totale separatezza “medievale” dai popoli. “Voi G8, noi 6 miliardi” era lo slogan che riassumeva la profondità dell’antagonismo politico e culturale.
Tutte e tutti conosciamo quale fu la risposta dei diversi poteri alle istanze portate avanti dal movimento dei movimenti: “La più grande violazione dei diritti umani in un paese occidentale dal dopoguerra ad oggi” fu la sintesi che ne fece Amnesty International.
Il movimento fu scientificamente e ferocemente attaccato, e, dentro quelle giornate, fu costretto ad abbandonare prematuramente la propria infanzia, sperimentando, accanto all’entusiasmo della speranza che ne costituiva la cifra, la tragicità della morte, con l’uccisione di Carlo Giuliani, della tortura a Bolzaneto, del massacro alla scuola Diaz.
L’obiettivo era chiaro: terrorizzare quel movimento nascente per spingere le aree più pacifiste e più legate al cattolicesimo sociale a tornare a casa e colpire le aree più radicali per trascinarle dentro un conflitto più violento e poterle di conseguenza ghettizzare.
Di quei giorni, facendo parte, come rappresentante di Attac Italia, del Consiglio dei Portavoce del Genoa Social Forum, ricordo ancora adesso l’intensità delle emozioni individuali e collettive e la drammaticità delle scelte da proporre a centinaia di migliaia di persone. Ricordo soprattutto la straordinaria intelligenza collettiva che quel movimento seppe mettere in campo, non cadendo nella trappola, rimanendo unito e capace di attraversare l’enormità della violenza che gli era stata scaricata contro. Fu quel movimento, unito, che poco più di un anno dopo, realizzò il Forum Sociale Europeo a Firenze (novembre 2002) e che partecipò, con la più grande manifestazione nazionale di sempre (tre milioni di persone), alla più grande manifestazione globale di tutti i tempi contro la guerra nel febbraio 2013.
Dove andò quel movimento
Fu sicuramente la mobilitazione contro la guerra in Irak a segnare l’apice di quella stagione e contemporaneamente ad avviarne il declino. Se un movimento così ampio, forte e plurale non era riuscito a determinare neppure lo spostamento di un giorno dell’avvio dell’attacco armato all’Irak, voleva dire che lo stesso modello capitalistico si era trasformato e, dal lancio della “guerra globale permanente” seguito all’attacco delle Torri Gemelle, stava progressivamente divorziando dalla democrazia, per quanto formale.
Quel modello, non potendo più contare sul consenso, scelse l’imposizione autoritaria.
Un secondo elemento di declino fu determinato dalle caratteristiche di quel movimento, che era soprattutto a vocazione globale e internazionale, ma senza una declinazione territorialmente consolidata. Una volta che i poteri forti decisero di sospendere la sovraesposizione dei grandi vertici – vere e proprie manifestazioni di potere ostentato – sostituendoli con incontri altrettanto dannosi ma formalmente più sobri, la chiamata alla mobilitazione verso quegli appuntamenti perse molta dell’intensità precedente.
Contemporaneamente, la scelta del Partito della Rifondazione Comunista, l’unico partito che coraggiosamente aveva accettato la sfida del movimento dei movimenti standone all’interno con intelligenza e generosità, di abbandonare il campo dell’alternativa per entrare nel governo Prodi, acuì il disorientamento sociale.
Quel movimento pian piano si disperse, ma, contrariamente a quanto sostenuto dalla narrazione dominante, non scomparve: quelle migliaia di attiviste e di attivisti tornarono, ciascun* con il proprio zainetto ricco di esperienza, a far politica nei territori, traducendo nella quotidianità le analisi globali e provando a intervenire nei conflitti territoriali.
Fino a produrre risultati straordinari: dieci anni dopo Genova, una inedita esperienza di partecipazione popolare, reticolare e diffusa, portò alla vittoria dei referendum per l’acqua pubblica e contro la sua privatizzazione, coinvolgendo la maggioranza assoluta del popolo italiano. L’esperienza del movimento per l’acqua non fu ovviamente un risultato diretto del movimento dei movimenti che aveva realizzato Genova, ma senza Genova non avrebbe mai potuto nascere.
Così come moltissime, e altrettanto egregie, lotte territoriali che, da allora ad oggi, continuano ad attraversare il paese, nel nome del paradigma dei beni comuni e della democrazia partecipativa.
Genova, ritorno al futuro
Sono passati due decenni da quelle giornate e le analisi e le proposte messe in campo da quel movimento si sono dimostrate per certi versi profetiche: la finanziarizzazione dell’economia e della società ha portato alla crisi globale del 2007-8; la totale non considerazione della relazione uomo-natura ha comportato la crisi climatica, fino all’arrivo della pandemia da Covid-19, nella quale siamo immersi da oltre un anno e mezzo.
Proprio la pandemia – che sarebbe più corretto definire sindemia, essendo stretta l’interrelazione fra il problema sanitario e le condizioni economiche, sociali e ambientali in cui è maturato – ha evidenziato in maniera esponenziale le insuperabili contraddizioni del modello capitalistico e la sua totale insostenibilità.
La pandemia ci ha posto davanti a un bivio. E se la strada sinora intrapresa dai grandi poteri economico-finanziari e dai governi ha puntato a chiuderne le faglie per riproporre l’ineluttabilità del modello capitalistico, noi sappiano che quella direzione rende irreversibile la crisi ambientale e climatica e cristallizza la diseguaglianza sociale, dividendo il mondo fra vite degne e vite da scarto. E abbiamo consapevolezza di come un sistema siffatto possa proseguire solo se incardinato dentro un telaio iper autoritario e di ulteriore espropriazione della democrazia.
È esattamente per questo che torna d’attualità ciò che venti anni fa ha mosso il movimento dei movimenti: la necessità di non limitarsi alla difesa dell’esistente in termini di diritti e beni comuni, ma di porre, oggi come allora, la sfida al livello dell’alternativa di società, facendo proprie le faglie aperte dalla pandemia nella narrazione liberista e trasformandole in fratture per la costruzione di un altro modello sociale.
Una società basata sulla cura, che metta al centro la vita e la sua dignità, che sappia di essere interdipendente con la natura, che costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i suoi scambi, sull’uguaglianza le sue relazioni,sulla partecipazione le sue decisioni.
Venti anni fa un movimento ampio, inclusivo e globale osò sovvertire il perimetro dato e, dichiarando “un altro mondo è possibile”, pronunciò l’indicibile e sfidò i potenti della Terra. Oggi quell’orizzonte è ancora più necessario se si vuole garantire una vita degna a tutte e tutti. La stagione ribelle che ha aperto il millennio propose una direzione: è giunto il momento di rimettersi in cammino.
* Marco Bersani è coordinatore nazionale di Attac Italia
Foto in apertura articolo di Jeanne Menjoulet da flickr.com