Uno sguardo sintetico sulla Cina, relazioni internazionali e assetto ideologico
Alberto Bradanini
Aspetti critici
Quando si affronta l’universo Cina è buona norma tenere a mente la categoria della complessità, alla luce del diffuso costume di rischiare giudizi e commenti spesso accompagnati da implausibili certezze. Stephen Hawking affermava che “il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, ma l’illusione della conoscenza”, un monito che non va mai dimenticato.
Leggi tutto: Uno sguardo sintetico sulla Cina, relazioni internazionali e assetto ideologicoMentre l’emancipazione storica dalla Repubblica Popolare meriterebbe sul piano dei valori umani la più grande ammirazione (900 milioni di individui affrancati dalla povertà in un tempo storico assai ridotto), la sua rappresentazione pubblica è deformata dall’attività demonizzante dei persuasori atlantisti che da qualche tempo hanno collocato la Cina nel campo del Male, contro l’Occidente, notoriamente quello del Bene.
Nell’Occidente americano-centrico si concentra la più micidiale macchina da guerra del pianeta (la spesa militare Usa equivale alla somma di quelle delle dieci nazioni che seguono in graduatoria, Cina e Russia comprese). Certo, la Cina possiede potere di deterrenza, anche nucleare, che basta e avanza per una guerra devastante, ma non possiede – come gli Stati Uniti – 800 basi militari disseminate in 74 paesi, molte dotate di testate nucleari (65-90 ordigni atomici solo in Italia, in violazione del Trattato di Non Proliferazione, TNP, da entrambi ratificato: una violazione sulla quale l’arco politico italiano, indistintamente, stende da decenni un umiliante velo di omertà). La Cina dispone di una sola base militare, a Gibuti, dove ce l’ha persino l’Italia, utilizzata soprattutto per proteggere le navi mercantili contro i pirati somali.
I punti critici per i quali rischia di accendersi la miccia di un pericoloso confronto sono tre:
il primo è Taiwan. In un incontro dell’American Enterprise Institute tenutosi il 2 novembre 2021 in Florida, alla presenza di noti sostenitori di D. Trump, tra cui H. Brands, D. Blumenthal, G. Schmitt, M. Mazza, J. Bolton e altri, la stessa destra americana ha riconosciuto che recuperare l’isola ribelle non ha per Pechino nulla di ideologico o stravagante. Persino un ipotetico governo cinese amico dell’America metterebbe in cima alla sua agenda politica il recupero dell’isola, territorio storico della Cina. Certo, per la Cina ciò dovrebbe compiersi con il consenso dei taiwanesi, la grande maggioranza dei quali è tuttavia contraria.
Pechino è consapevole che un conflitto con Taiwan avrebbe pesanti riflessi sulla sua stabilità, senza contare che la deterrenza di Taipei (a prescindere dal possibile intervento americano) non renderebbe la conquista dell’isola una passeggiata. In sostanza, a dispetto della narrazione occidentale che attribuisce a Pechino la volontà di usare la forza – e nonostante il narcisismo di Xi Jinping che vorrebbe passare alla storia come il ri-conquistatore dell’isola – il Partito Comunista Cinese tiene la testa sulle spalle. Non v’è alcuna evidenza che l’Esercito di Liberazione Nazionale stia preparando l’invasione dell’isola. La Cina investe sull’onda lunga della storia, opera sub specie eternitatis e rebus sic stantibus – in linea con gli auspici espressi da Deng Xiaoping poco prima di morire – intende rinviare la soluzione del problema alle future generazioni, quando le condizioni sui due fronti lo consentiranno. Non è un caso che Taipei non abbia mai superato la soglia critica della formale dichiarazione d’indipendenza, che Pechino è impegnata a scongiurare in ogni modo, per non dover affrontare la trappola di un possibile intervento che costituisce l’obiettivo strategico dell’impero americano;
il secondo punto critico si trova nel Mar Cinese Meridionale: in un documento Nato approvato a Bruxelles nel giugno 2021, su proposta americana, si legge che “la Cina è oggi un rischio per la sicurezza occidentale”, senza beninteso che di ciò venga prodotta alcuna prova. Le contestabili attività antiterrorismo nel Xinjiang, i diritti umani e altre discutibili politiche del governo, nulla hanno a che vedere con la sicurezza degli Stati Uniti o dell’Occidente. Il sogno dell’egemonismo americano è costituito dalla frantumazione della Cina in un insieme litigioso di staterelli deboli, sottosviluppati e facilmente asservibili. Secondo tale patologia, un mondo plurale è inconcepibile. Le nazioni non possono convivere nella diversità, ciascuna con proprie caratteristiche ideologiche, sociali ed economiche. No, questo non è consentito.
Nelle parole dell’ex-premier australiano, Paul Keating, “la Cina costituisce una minaccia non per quello che fa, ma per quello che è. È la sua sola esistenza a turbare il sonno della superpotenza”. L’emersione di un paese che ospita un quinto dell’umanità è considerata illegittima, un’insidia alla supremazia di quell’impero voluto da Dio per governare un pianeta irrequieto, “la sola nazione davvero indispensabile”, secondo il lessico patologico di Bill Clinton (1999). Gli Stati Uniti non possono tollerare chi non si piega al principio mafioso dell’obbedienza, cercando di costruire il proprio benessere in modo distinto e sovrano.
Nel citato vertice Nato, il presidente francese Macron aveva obiettato che, essendo situata dall’altra parte del mondo, la Cina non avesse molto a che vedere con la Nato (l’acronimo inglese significa infatti: Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord). Biden deve aver ascoltato educatamente, poi, dopo alcune settimane, si è appreso che il contratto franco-australiano per la fornitura di sommergibili tradizionali era stato sostituito da quello per la fornitura di sottomarini americani a propulsione nucleare. Il governo francese legge la notizia sui giornali. Il messaggio è chiaro: lo statuto di vassallaggio dell’Europa prescrive l’obbedienza senza fiatare. La Francia subisce un colpo alla sua industria e richiama per qualche giorno i suoi Ambasciatori a Washington e Canberra, poi tutto finisce lì.
Tralasciando un’infinità di altri armamenti, nei mari cinesi gli Stati Uniti dispongono già di 14 sommergibili nucleari, ognuno con 24 batterie di missili Trident, ciascuna a sua volta dotata di 8 testate nucleari. Ogni sommergibile è in grado di polverizzare 192 città o siti strategici nel mondo intero. Essi, per di più, saranno presto sostituiti da altri più micidiali (classe Colombia). La Cina possiede solo quattro sommergibili rumorosi e di vecchia generazione, che non possono allontanarsi molto dalla costa, ciascuno dei quali dispone di 12 missili a testata singola, non in grado di raggiungere il territorio americano.
La logica vorrebbe poi che, trattandosi di acque cinesi, siano le attività militari americane a costituire una minaccia alla sicurezza della Cina, non viceversa. Possiamo solo immaginare le reazioni americane se – per ipotetica simmetria – una flotta cinese (navi e sottomarini) armata di missili nucleari si aggirasse nel Golfo del Messico davanti alla Florida. Meglio non pensarci (o meglio, basta pensare a Cuba ‘62). È così, dunque, che Stati Uniti e Regno Unito, paesi dotati di armi atomiche, trasferiranno materiali militari nucleari all’Australia, uno stato non-nucleare, violando lettera e spirito del Trattato di Non Proliferazione, spingendo altri paesi non dotati di armi nucleari a seguirne l’esempio e rendendo ancor più insicura la regione dell’Asia-Pacifico.
Non contenti dell’enorme disparità di potenza di fuoco, gli Stati Uniti rafforzano il dispositivo militare in mari lontani, investendo su armamenti nucleari fatti persino pagare all’Australia e chiamano all’appello due dei cosiddetti Five Eyes(i “cinque occhi”) – Australia e Regno Unito, in attesa magari che si aggiungano Canada e Nuova Zelanda, in qualche ruolo di comparsa – creando un’inedita alleanza, l’Aukus, incaricata di contenere la Cina con il pretesto di garantire una libertà di navigazione che Pechino non ha mai messo in discussione. Quello che la Cina contesta – ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (firmata a Montego Bay nel 1982) – è la facoltà dei paesi terzi di svolgere attività militari e di intelligence entro le 200 miglia dalla costa (nella cosiddetta Zona Economica Esclusiva, istituita dalla Convenzione stessa). E la Cina non è la sola a resistere a tale pretesa. L’India, ad esempio, ha lo stesso contenzioso con gli Stati Uniti, i quali beninteso se ne infischiano e continuano a fare i loro comodi. Poiché la Convenzione è effettivamente ambigua sul punto, si è qui alle prese con un tipico problema di interpretazione da affrontare per le vie diplomatiche e non mettendo mano al grilletto.
Non solo, mentre impongono una strumentale interpretazione del diritto internazionale, gli Stati Uniti tacciono sulla banale circostanza di essere la sola potenza marittima a non aver ratificato la Convenzione sul Diritto del Mare, perché ciò impedirebbe alle flotte americane di navigare liberamente in acque altrui;
c) il terzo luogo di potenziale criticità è rappresentato delle isole Diayou (Senkaku[i] per i giapponesi), situate a Est di Taiwan, rivendicate da Pechino e controllate dal Giappone. Conquistate da quest’ultimo insieme a Taiwan con la vittoria sull’impero Qing nel 1895, al termine del secondo conflitto mondiale passano sotto amministrazione americana fino al 1972, quando vengono retrocesse a Tokyo, ma non a Taiwan, che insieme a Pechino ne rivendica oggi la sovranità. Questo piccolo e disabitato arcipelago costituisce un piatto velenoso che nel dopoguerra gli americani hanno servito alle due nazioni, una spina nel fianco nei rapporti tra le due nazioni. Nel 2017 Usa e Giappone ribadiscono che il trattato bilaterale di mutua sicurezza si applicherebbe anche a tale arcipelago. Pechino, laconica, si è limitata a ripetere che indipendentemente da quello che i due paesi affermano, le isole Diaoyu appartengono alla Cina, dichiarazione ripresa poi da Taipei. Per ora la questione rimane insoluta, ma è arduo immaginare che quelle isole valgano per Pechino il rischio di un devastante conflitto con il Giappone (e potenzialmente gli Stati Uniti). Tokyo a sua volta riveste un ruolo cruciale nella strategia americana di contenimento cinese ed è oggetto di costanti pressioni a favore di una politica di riarmo. Per ora resistenze psicologiche interne, alcune forze politiche e la società civile sono riuscite a tenere a bada tali pressioni, ma ahimè – sotto i colpi della propaganda militarista americana – sono già visibili le prime crepe.
Assonanze e dissonanze
Alcuni osservatori ritengono che a dispetto di qualche differenza formale in realtà i sistemi economici di Cina e Occidente siano fondamentalmente simili, e che anzi tendano persino a convergere. Si tratta di una asserzione non condivisibile.
Tra i due sistemi vi sono certo alcune similitudini: la formazione dei prezzi, l’apertura al mercato, la presenza di corporazioni, la tutela degli investimenti (non però il libero movimento di capitali speculativi). Essi però restano strutturalmente diversi. In Occidente, il potere effettivo è collocato nelle grandi corporazioni che controllano gli asset materiali e immateriali del paese e dettano l’agenda politica ai governi di turno sulla base dei loro interessi, palesi e occulti. In Cina (e nazioni simili), è la sfera politica a governare l’impianto economico, la finanza, i settori strategici, le industrie di base e via dicendo, anche se gli interessi della classe di stato (Partito, burocrazia e aziende pubbliche) restano tutelati. Quando superano una certa dimensione le aziende private sono considerate portatrici di una funzione sociale e devono conformarsi alle direttive del Partito, procedendo persino, all’occorrenza, a periodiche donazioni, costruzione di scuole, ospedali e altro.
Non è una coincidenza che in tali nazioni la transizione da una generazione a un’altra costituisca un passaggio delicato, foriero di potenziale destabilizzazione, poiché insieme al potere formale passa di mano anche la ricchezza del paese. Qui, la classe di stato, con tutti i suoi limiti e inadempienze, fa da barriera alla pervasività del profitto privato, nazionale e globale.
Tale cruciale diversità – che impedisce all’ipertrofico corporativismo Usa di superare la Grande Muraglia – è tra le cause di quella nuova guerra fredda che gli Stati Uniti hanno dichiarato all’unico peer contender (sfidante alla pari) che minaccerebbe il dominio americano nel mondo, sebbene la Cina sia (per ora) una media potenza militare, pur essendo una grande potenza economica (la Russia invece, pur essendo una grande potenza militare, è una scarsa potenza economica).
Cina – Stati Uniti
Le relazioni tra i due paesi sono complesse, ma beninteso centrali per la stabilità del pianeta. Per una migliore comprensione è utile un sintetico cenno ai rispettivi profili identitari.
Il grande sinologo britannico J. Needham individuava nel patologico convincimento della psiche americana di rappresentare il popolo di Dio – a sua volta attinto al mito dell’antica Israele – un fattore di perenne instabilità per la pace del mondo. Tale mistificazione auto-indotta prende avvio nei secoli XVI e XVII con la fuga dall’Europa verso la nuova Gerusalemme da parte dei fondamentalisti religiosi nord-europei. La genesi politico-culturale dell’America, la nazione di frontiera, voluta da dio per governare un pianeta irrequieto, nega la nozione di limite. Il suo monoteismo mercantile, fondato sul metodo democratico formale, è composto da una trinità: esistenza di dio, proprietà privata e libere elezioni (tra partiti gemelli, però, ai quali è preclusa la messa in discussione del sistema), mentre la radice del potere non è mai intaccata. Al suo esordio, l’America era spinta da genuini valori di libertà, solidarietà e frugalità. Tuttavia, la perdita di quell’innocenza si consuma in fretta, con lo sterminio scientifico delle popolazioni autoctone. Di quelle qualità genetiche non resta oggi che uno sfumato ricordo. Il successivo sviluppo di un capitalismo selvaggio ha poi svuotato le residue radici umane e democratiche delle origini.
Secondo una linea di pensiero asservita e conformista, l’americanismo rappresenterebbe il coronamento della storia dell’Occidente, mentre esso ne rappresenta invece una degenerazione. L’americanismo è oggi il sostrato inconscio di un destino imposto come ineludibile, strumento salvifico di una globalizzazione che promette invano ricchezza per tutti, un modello dominato da un ceto minimamente mobile fondato sulla bulimia dell’individuo-consumatore.
La Cina è invece il paese dell’indugio riflessivo e del limite autoimposto, dove è assente quel messianismo storicisticodella divinità rivelata (biblica o coranica) che si occuperebbe dei destini del mondo. La sua centralità è di tipo culturale, tutti possono farne parte abbracciando volontariamente principi e costumi cinesi. Questo almeno era il mondo valoriale del passato, la scena odierna è più complessa, esposta anch’essa all’assedio della normalizzazione globalista.
In epoca imperiale, la Cina aveva resistito alla tentazione di conquistare territori altrui, oltre il mare o verso le sterminate pianure siberiane. L’avvenire dirà se l’accumulo di forza politica ed economica s’imporrà sulla sua tradizionale postura del limite, trasformando anche il gigante asiatico in una potenza imperialista che, insieme all’intensificazione delle rivalità con quella americana, accentuerà squilibri e tensioni sulla scena internazionale.
Per Pechino, il solo paese che conti davvero sul piano politico sono gli Stati Uniti (tutta l’Europa è vista come una costola afona dell’imperialismo americano), con cui fino ad alcuni anni orsono costi e benefici trovavano un loro equilibrio. Nei riguardi di Washington la dirigenza cinese resta guardinga persino nel linguaggio, mostrando ampia disponibilità al compromesso e mirando a costruire un multipolarismo politico ed economico anti-egemonico.
Dai primi anni ’70 fino al 1989-91 il ruolo che Washington aveva assegnato alla Cina, e viceversa, vale a dire il contenimento dell’Unione Sovietica, aveva garantito un relativo grado di assonanza tra Cina e Stati Uniti, a dispetto delle difformità ideologiche e di sistema economico. In quegli anni, però, si verifica un evento storico che cambia le carte in tavola, la disintegrazione dell’impero sovietico. Con essa scompare di colpo la ragione principale che aveva portato all’avvicinamento tra le due nazioni, inizia una storia diversa, si allunga l’ombra del confronto strategico e l’America inizia a guardare alla Cina come al suo rivale strategico, pacifico ma assai insidioso.
Nei primi anni del secolo, mentre riprende quota la teoria della minaccia cinese, emerge di colpo un pericolo immediato, il terrorismo. All’indomani dell’11 settembre 2001, l’opzione di reclutare la Cina nella lotta contro il terroreinduce Washington a investire su relazioni competitive ma costruttive, inclusa la disponibilità a cooperare anche fuori dall’Asia Pacifico. Negli anni successivi, rientrata la minaccia terroristica, l’agenda americana torna a puntare l’indice contro la Cina.
Nei Comunicati Congiunti sino-americani (1972, 1982, 2009, 2011), pur riconoscendo le tante differenze, le due parti convengono sul rispetto della reciproca sovranità e integrità territoriale, non-aggressione, non-interferenza negli affari interni, mutuo beneficio, convivenza pacifica e libertà di scegliere il proprio modello di sviluppo.
Tale intelaiatura porta benefici a entrambi: per gli Stati Uniti, produzione a basso costo e attività inquinanti delocalizzate in Cina, import di beni cinesi a buon mercato in funzione antinflattiva, joint ventures e investimenti greenfield; per la Repubblica Popolare, import di capitali e creazione di milioni di posti-lavoro, acquisizione di know how e tecnologie, accesso ai mercati internazionali, valuta pregiata, crescita di capacità imprenditoriale.
Sul piano multilaterale, Pechino sollecita maggior equità nella gestione delle istituzioni di Bretton Woods dominate dagli americani – Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Banca asiatica di sviluppo e Omc – che seppure imperfette rappresentano quel poco di governo mondiale dell’economia che la comunità internazionale è riuscita a costruire. Negli ultimi decenni, davanti al muro di Washington, Pechino si convince che non le verrà consentito di occupare il posto che le compete e inizia a investire in altre direzioni. Nascono così la Sco[ii], la banca dei Brics e l’Asian Infrastucture and Investment Bank, alla quale con disappunto americano aderiranno anche i paesi europei, e prende vita un grande accordo commerciale asiatico (la Rcep[iii]), la Belt and Road Initiative e altri progetti vedranno la luce nei prossimi anni.
Non a caso, nel 2014, all’esplodere della crisi ucraina, la Cina scopre una comune agenda con la Russia, centrata sul condiviso bisogno di contenere la pervasività americana e sulla complementarità economica ed energetica (la Cina ha sete di gas e petrolio, di cui la Russia è ricca, mentre quest’ultima costituisce un significativo mercato di sbocco: il commercio bilaterale supera già i 150 mld di dollari ed è in forte crescita), sebbene Pechino rimanga vigile a non compromettere i profondi interessi che la legano agli Stati Uniti. Quando il 24 febbraio scorso scoppia il conflitto russo-ucraino, la scelta di Pechino – che sul piano formale assume la forma dell’astensione (in Consiglio di Sicurezza e all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite) in coerenza con la difesa da possibili interferenze esterne sui temi critici della sua agenda domestica, Tibet, Xinjiang e Taiwan – è tuttavia netta a favore della Russia.
La sfida tra Cina e Stati Uniti si estende poi al piano militare. Le basi americane nel mondo sono oltre 800[iv] (cui devono aggiungersi quelle del Regno Unito, 145 in 42 paesi[v]), la Cina ne ha una sola, a Gibuti. Gli Usa hanno dodici portaerei, la Cina due. Le testate nucleari cinesi non arrivano a 300, migliaia quelle americane operative[vi] e altrettante in manutenzione. Il Pentagono dispone anche di mini-ordigni nucleari, il Modello B61-12, utilizzabili su teatri ristretti. Nel triennio 2018-20, la spesa cinese per la difesa è cresciuta in linea con il suo Pil, intorno al 6-7% annuo, mentre quella Usa dell’epoca Trump è aumentata del 10% l’anno, ampliando ulteriormente la forbice. Il bilancio americano rappresenta il 3,4 per cento del proprio Pil (2019), quello cinese è inferiore al 2 per cento (la media mondiale è del 2,6 per cento). La spesa pro-capite della Cina è un ventiduesimo di quella americana, un nono di quella britannica e un quinto di quella del Giappone. Se la maggior disponibilità di risorse consente a Pechino di sviluppare tecnologie militari in misura impensabile fino a pochi anni orsono, le spese della Cina restano tuttavia in linea con demografia, geografia e crescita della sua economia.
In ultima analisi, gli strumentali allarmismi dell’intelligence Usa sull’aumento delle spese cinesi trascurano la circostanza che il bilancio militare americano rimane di gran lunga il primo al mondo ed equivale alla somma delle spese militari dei dieci paesi che seguono (v. Sipri, Stoccolma).
Nella regione dell’Asia Pacifico – nella quale per Pechino non dovrebbero intervenire potenze non asiatiche Consiglio di Sicurezza e all’Assemblea Generale delle N.U.) – Washington dispone di fedeli alleati, Australia, Indonesia, Malesia e altri, sebbene si cominci a intravedere qualche incrinatura. L’ombrello Usa, vale a dire un’egemonia basata su forza militare, potere del dollaro, fomentazione di conflitti, vendita di armi e ricatti economici, va perdendo fascino e rilevanza. Le Filippine di Duterte sono divenute un inedito paradigma di antiamericanismo; il Vietnam, pur desideroso di lasciarsi alle spalle i rancori del passato, non è diventato per questo un boccone scontato per Washington: scelte ideologiche e interessi condivisi sono vicini a quelli cinesi, nonostante le dispute sulle isole Paracels nel Mar Cinese Meridionale.
In termini strategici d’altra parte, l’economia cinese non ha raggiunto la piena maturità. Il Pil è il secondo al mondo, ma ancora distante da quello americano. La Cina manca di sufficiente peso politico e forza militare per risultare determinante nei teatri di crisi, oltre che di un sistema consolidato di alleanze, come quello occidentale. Le forze armate cinesi hanno fatto progressi, ma non sono paragonabili a quelle americane. La marina non riesce a operare convenientemente nemmeno su teatri vicini. La fornitura di beni pubblici internazionali da parte cinese è limitata, qualche missione di pace, un po’ d’aiuto allo sviluppo, specie in Africa, nulla di significativo.
Le proiezioni che vedono la Cina destinata nel prossimo futuro a sostituire gli Stati Uniti sulla scena mondiale non sono dunque suffragate da evidenze.
Quanto alla pseudo-profetica “trappola di Tucidide” applicata al caso in oggetto – vale a dire l’inevitabilità di un conflitto tra la potenza cinese in ascesa e quella americana in (relativo) declino – essa riposa su fragili fondamenta. Si tratta in realtà di una narrativa nata nel mondo accademico statunitense pesantemente sovvenzionato dal complesso militare-industriale, che – se si escludono irrazionali obiettivi apocalittici – mira a far crescere a dismisura le spese militari per la cosiddetta difesa.
Persino il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica si è infatti chiuso senza un conflitto, e per cause endogene più che esogene, a ulteriore smentita del paradigma del grande storico greco, il quale non era sostenitore di alcun automatismo su questioni così complesse. Non solo la storia è ricca di sorprese, ma anche quando sembra ripetersi, essa non lo fa allo stesso modo, sempre nuove essendo le variabili che entrano in gioco, tra cui oggi le implicazioni distruttive dell’arma atomica.
Il politologo americano Robert Gilpin[vii] afferma invece che il conflitto potrebbe risultare necessario per definire le gerarchie di potere, anche se poi suggerisce le strade per evitarlo, confessando così che esso è tutt’altro che inevitabile. Egli rileva che quando una potenza emergente ritiene che il mantenimento dello status quo costituisca l’impedimento principale e che uno scontro potrebbe proiettarla verso una posizione dominante, rompe gli indugi e passa all’attacco. In verità, non si vede quale sarebbe l’interesse della Cina ad avventurarsi su tale percorso, a meno di rovesciare la prospettiva, vale a dire che siano gli Stati Uniti a passare all’azione, per arrestare il proprio declino e ridimensionare le presunte ambizioni cinesi, in un conflitto che sarebbe per entrambi foriero di grossi guai.
L’ipotesi di uno scenario catastrofico è stata esaminata anche da Graham Allison[viii], secondo il quale occorre che i due protagonisti conoscano bene i fattori di rischio per non cadere nella trappola. Alle prese con analoghi contesti, l’opzione nucleare ha impedito in passato lo scoppio di un conflitto tra Grandi Potenze anche quando ve ne sarebbero stati i presupposti. Certo, egli sottolinea, non si può escludere la possibilità di un conflitto limitato alle armi convenzionali. Nemmeno tale congettura appare tuttavia convincente, dal momento che il paese che vedesse avvicinarsi la sconfitta finirebbe per essere tentato di usare la bomba, un’ipotesi questa che la parte avversa non può non aver valutato sin dall’inizio, spianando così la strada al compromesso. Tale logica è beninteso valida nell’ipotesi in cui le decisioni seguano i princìpi della ragione e del rapporto costi-benefici, che i decisori politici, come la storia insegna, non sempre mostrano di rispettare.
Pur ritenendo inammissibile la pretesa di un paese di 330 milioni di individui di imporsi su 8 miliardi di abitanti della terra, la Cina reputa che l’esasperazione dei contrasti, lungi dal garantire benefici, sarebbe foriera di duri contraccolpi. Per il futuro si può ipotizzare un inasprimento delle tensioni, ma lo scontro militare si collocherebbe fuori dalla logica della reciproca convenienza. Anzi, secondo una versione in verità piuttosto ottimistica, Cina e Stati Uniti sarebbero destinati a lavorare insieme alla costruzione di un nuovo ordine internazionale, gestendo gli affari del mondo in sostanziale condivisione d’interessi.
Una reciproca disponibilità al compromesso e l’esplicita rinuncia all’opzione della forza costituirebbero l’inizio di un percorso virtuoso. L’America abbandonerebbe la logica del containment e della rivalità strategica, ricercando un modus bilanciato di convivenza. Del resto, anche nell’esecrabile perseguimento dell’obiettivo della destabilizzazione della Cina, ciò che ha funzionato con l’Unione Sovietica non funzionerà con il gigante asiatico. La Repubblica Popolare è un attore essenziale del sistema produttivo mondiale, legato a doppio filo ai mercati internazionali, mentre l’economia sovietica lo era in parte minima.
Soddisfatta dei risultati raggiunti, la Cina è un paese ontologicamente revisionista e antistoricista, che riconosce l’attuale ruolo dominante dell’America, ma non ha fretta di imporre un diverso equilibrio e resta in attesa dei tempi che la storia vorrà definire.
Nel frattempo, una cornice di reciproca attenzione su cui Pechino potrebbe convenire è quello della coevoluzione[ix], termine che indica la disponibilità a perseguire i rispettivi interessi collaborando quando le posizioni coincidono e lavorando a un compromesso nelle altre circostanze, fermo restando il mutuo impegno a ridurre al minimo i rischi di escalation.
Sul piano dell’integrazione commerciale dell’Asia-Pacifico, Pechino aveva proposto sin dal 2011 un accordo tra i dieci paesi dell’Asean[x] più sei[xi]. Il progetto era aperto all’adesione di Washington (fortemente contraria, tuttavia) coinvolgendo 3,5 miliardi di individui, con un Pil (2018) di 21.300 miliardi di dollari, il 39% di quello mondiale. Nel novembre 2020, dopo anni di trattative e nonostante il ritiro dell’India (per tutelare la propria agricoltura), tale accordo (Rcep) è giunto finalmente in porto. Si tratta del più grande accordo di libero scambio della storia, che nell’arco di vent’anni ridurrà i dazi del 90%, consolidando gli approvvigionamenti e codificando standard comuni e commercio elettronico. Il nuovo blocco è il primo in assoluto che include Cina, Giappone e Corea del Sud, vale a dire la prima, la seconda e la quarta più grande economia asiatica. La Rcep dà vita a un’insolita unità d’intenti tra nazioni orientali eterogenee, che potrebbe preludere all’affrancamento da un Occidente intrappolato in un incantesimo euro-atlantista fuori tempo.
Secondo il Department of Commerce[xii], l’interscambio Cina-Usa ha superato nel 2020 i 560 miliardi di dollari, con un disavanzo americano di 310 miliardi. Molti prodotti cinesi incorporano però lavorazioni provenienti da altri paesi, Stati Uniti inclusi, quale risultato della divisione internazionale del lavoro. Lo squilibrio commerciale Usa ha una genesi complessa, solo in parte attribuibile alla Cina, ed è incomprimibile, perché funzionale al dominio del dollaro sui mercati internazionali.
Quanto agli investimenti americani sul mercato cinese, essi sfiorano oggi i 260 miliardi. Quelli cinesi in America superano i 100 miliardi, sebbene stiano ora ripiegando in ragione delle restrizioni introdotte da Trump.
Tra i due sistemi è cresciuto negli anni un legame di interdipendenza che non sarà facile demolire[xiii]. All’elevato interscambio annuale, va poi aggiunto il ruolo della finanza americana sul mercato cinese, a dispetto delle spinte a contrario di Donald Trump. La strategia di Pechino ha allentato i vincoli sui capitali in entrata, che possono ora operare liberamente nel settore del risparmio. I grandi gestori Usa di patrimoni, BlackRock, Vanguard, JP Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, American Express hanno uffici in molte città cinesi e vendono fondi comuni ai cittadini cinesi, con reciproco vantaggio: la Cina raccoglie i benefici della diversificazione finanziaria, mentre la finanza americana mira ai conti correnti cinesi, che nel 2023 supereranno i 41.000 miliardi di dollari. Se in America il partito anticinese cerca di tener lontano dai listini le società del gigante asiatico, Wall Street punta direttamente alla Cina. Agli ingenti investimenti Usa in Cina fanno riscontro i 1180 miliardi di dollari che Pechino detiene sotto forma di bond (il 5,6% del debito Usa totale). Le imprese americane possiedono partecipazioni in oltre 70.000 imprese in Cina, con un fatturato annuo di 700 miliardi di dollari. Il 97% di esse produce profitti. Per Moody’s Analytics, il tentativo degli Stati Uniti di separare le due economie, tagliare gli approvvigionamenti e interrompere le catene commerciali ha sinora danneggiato soprattutto lavoratori e consumatori americani
Il dibattito ideologico
Se il dibattito ideologico di un tempo tra riformisti (sperimentare per crescere) e conservatori (preservare l’identità ideologica e politica) si è chiuso con la vittoria dei primi, una nuova antinomia si pone oggi nella coppia neoliberisti/statalisti. I primi – il partito americano – postulano l’abbattimento delle residue barriere ideologiche davanti all’inevitabilità di una società centrata sulla competizione, culturale e mercantile, guadando lentamente la distanza che li separa dall’altra riva; i secondi si ergono invece a difesa del ruolo dello Stato in economia e del valore dei beni sociali fondamentali, cercando di salvaguardare il circuito di potere del Partito. Non a caso, nella sintesi dialettica tra i due poli, la mediazione di quest’ultimo pone al centro la modernizzazione del paese, una società dal benessere diffuso, maggiori coperture sociali, casa/automobile di proprietà, ordine e controllo sociale, ma anche briglia sciolta all’arricchimento.
Il superamento dei meccanismi perequativi di un tempo, il forte divario tra città e campagne, tra zone costiere e interne, tra ceto agiato e proletariato urbano, lo sfruttamento del lavoro e la scarsa attenzione all’ambiente sono i punti critici dell’agenda cinese.
Le ingiustizie distributive, tallone d’Achille insieme alle libertà dell’individuo, vengono per ora deglutite da una popolazione silente, ma non inconsapevole. Xi Jinping non intende rivedere la storica esortazione di Deng: “arricchiamoci in fretta, avremo tempo in futuro per correggere gli errori”, sebbene percepisca che le conseguenze di sviste e omissioni in questa cruciale fase di transizione/evoluzione rischiano di produrre danni di natura etica prima che economica, non facilmente rimediabili.
Epilogo
Nonostante i limiti – insufficiente rispetto dell’uguaglianza, delle libertà individuali e dell’ambiente, e sul piano dottrinale la distanza dalla migliore speculazione filosofica marxiana – la Cina si propone in contrasto con la proposizione di F. Fukuyama della fine della storia, quell’imbuto ineludibile (democrazia liberale ed economia di mercato), nel quale prima o poi tutte le nazioni del mondo sarebbero destinate a precipitare. Un altro mondo sarebbe invece possibile, certo ancora indefinito, che dovrebbe cancellare alcune tossiche derive (le gravi ingiustizie sociali, l’amaro sfruttamento del lavoro, i crediti sociali e altro), un mondo tuttavia che mira a differenziarsi dal corporativismo nichilista occidentale, immerso nell’alienazione valoriale di denaro e potere, così lontano dalle genuine aspirazioni dell’essere umano.
In una diversa prospettiva, dunque, le due esperienze, quella occidentale centrata sui valori dell’individuo e quella cinese, fondata sull’uomo vero di Confucio (comunitarismo) e sull’uomo nuovo di Marx (che nulla ha in comune con il comunismo storico novecentesco) s’incontrerebbero a metà cammino per disegnare una nuova etica universalistica rispettosa delle diversità e dei bisogni autentici dell’uomo.
A sua volta, la superpotenza mondiale potrebbe riflettere su quella patologia eccezionalista di dominio che ha improntato la sua storia, accettando di sedersi intorno a un tavolo come un paese normale, per contribuire alla soluzione dei problemi del mondo. Per il momento, tale prospettiva è una chimera. L’ipertrofia elitaria di potere e ricchezze, distante dalle urgenze dello stesso popolo americano, non potrà essere contenuta dalle fragili restrizioni del diritto internazionale, ma solo da profondi cambiamenti interni, valoriali e di rapporti di potere, oltre che da un graduale riequilibrio di forze sulla scena internazionale, al raggiungimento del quale il contributo della Cina e delle altre nazioni resistenti sarebbe meglio accolto se fosse accompagnato da un rinnovamento delle rispettive istituzioni sui temi della libertà, eguaglianza e partecipazione, un percorso questo di cui anche le nazioni occidentali, andando oltre la forma, avrebbero di certo un gran bisogno.
[i] un piccolo arcipelago disabitato nel mar Cinese Orientale, oggi sotto amministrazione giapponese, rivendicate da Taiwan, oltre che dalla Repubblica Popolare Cinese, sulla base di argomentazioni storiche e geografiche.
[ii] Shanghai Cooperation Organization
[iii] Regional Comprehensive Economic Partnership
[iv] https://www.albor-notizie.it/2019/11/16/800-basi-militari-usa-per-il-controllo-del-pianeta/
[v] https://www.jonathan-cook.net/blog/2020-11-27/us-war-machine/
[vi] https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_con_armi_nucleari
[vii] Robert Gilpin, Hegemonic Transition and China, maggio 2015
[viii] Graham Allison, Destined for War, can America and China escape the Thucydides’s trap, Houghton Mifflin 2017
[ix] http://www.salzburgglobal.org/topics/american-studies-ssasa/article/wang-dong-china-and-the-us-must-strive-for-co-evolution-not-collision.html
[x] Association of Southeast Asian Nations, Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia, Vietnam
[xi] Australia, India, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Cina
[xii] https//www.census.gov/foreign-trade/balance/c5700.html
[xiii] Nei prossimi vent’anni la Cina acquisterà dalla Boeing altri 7.000 aerei di varia tipologia