Vent’anni fa… è domani
Vitaliano Della Sala*
A mo’ di introduzione…
“C’era una volta un leone… Il leone è forte perché gli altri animali sono deboli. Mangia gli altri animali perché questi si lasciano mangiare. Il leone non uccide con gli artigli o con i denti; uccide guardando. Prima si avvicina in silenzio. Poi balza fuori e atterra la preda con una zampata e rimane a guardarla. Fissa la sua preda, cosi la povera bestiola guarda il leone fissarla. La bestiola non vede più se stessa, vede ciò che il leone guarda, vede la sua immagine nello sguardo del leone; vede che nello sguardo del leone lei è piccola e debole. E, vedendo di essere fissata, la bestiola si convince di essere piccola e debole. E per la paura con cui si vede nello sguardo del leone, ha paura. È cosi che la bestiola si arrende e il leone la divora senza pietà. Il leone uccide guardando”.
Genova 2001. Ieri
Venti anni. Per chi soffre un’eternità. Per l’eternità un attimo!
Sono trascorsi vent’anni dai fatti e dalle parole di Genova, dai forum, dalle manifestazioni, dall’uccisione di Carlo Giuliani, dalle imprese cilene delle forze dell’ordine in strada, alla scuola Diaz, a Bolzaneto.
L’amarezza e lo sdegno sono ancora vivi per la violenza subita e per le giustificazioni e le coperture a tanta violenza. Una brutalità che spesso si è espressa nella forma di una pericolosa generalizzazione, come se spaccare le costole a un ragazzo o ammazzarlo è la stessa cosa che frantumare una vetrina.
Di fronte alla violazione dei diritti di vent’anni fa, che quotidianamente e senza clamore si ripete in Italia e nel mondo, nelle carceri e nelle strade, nei confronti dei migranti o degli oppositori o dei deboli, abbiamo ancora l’ineludibile dovere di fare verità e giustizia; siamo ancora in tempo per uno scossone di democrazia, di civiltà, perché quei fatti e quelle parole non cadano nel dimenticatoio e, nonostante l’apparente “sconfitta” del Movimento dei movimenti, nessuno si faccia irretire dal potere globale e dalla violenza bruta che lo supporta.
A Genova, nel 2001, la protesta non era sorta dal nulla ma era nata da una nuova logica che cominciava a farsi strada, la logica reticolare. Come era accaduto per Internet, così la “rete” cominciava a dimostrarsi un modo per collegare, connettere, mettere insieme la gente che non accettava lo statu quo ed era pronta a fare qualcosa perché si potesse cambiare. Tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo millennio, si affacciava un’intera generazione che chiedeva di partecipare alle scelte politiche, voleva poter indirizzare, con proposte e soluzioni, un processo di globalizzazione fino ad allora affrontato con l’unica bussola del profitto e del pensiero unico. Quella generazione cresciuta dopo il crollo del muro di Berlino e all’ombra dell’”Impero” americano, aveva sviluppato originali anticorpi contro il pensiero unico e non era per nulla rassegnata a delegare la voglia di politica alla casta dei politici di mestiere. Il “Popolo di Genova” contestava la globalizzazione selvaggia e senza regole, che è ancora in atto e che impone un modello di sviluppo radicalmente centrato sul consumismo, che pone come legge assoluta quella del mercato e trasforma la globalizzazione in una concentrazione della ricchezza del mondo nelle mani di pochi in grado di gestire ogni aspetto della vita, brevettandone le forme e determinandone il futuro.
La situazione attuale del mondo ha dato ragione al Movimento noglobal: pochissimi plurimiliardari concentrano nelle proprie mani più della metà della ricchezza totale destinata ai miliardi di abitanti del nostro pianeta, sempre più inquinato e caldo. Il 20% della popolazione mondiale è 60 volte più ricca dell’ 80% della popolazione impoverita! Il Movimento si proponeva di cominciare a far prendere coscienza che bisogna entrare nell’ordine di idee per cui anche i gesti quotidiani, ordinari, possono contribuire a cambiare le cose. La vita quotidiana può essere intessuta di scelte pro o contro il sistema economico. Incontrarsi rispettando le diversità è stata una pratica vincente e ripetibile; una moltitudine si ritrovò insieme in manifestazioni e appuntamenti anche caotici, ma con tanta voglia di parola e di confronto.
È nell’incontro, nell’incrocio fra migliaia di esperienze, nella contaminazione fra diversi, la feconda sostanza del domani. Ed è stata questa la differenza rispetto alle battaglie degli anni ’70. Allora si partiva dalle ideologie e ci si divideva, ci si contrapponeva, muro contro muro. Nel Movimento dei movimenti si ricerca l’altro, il diverso da sé per comunicare, pur nella differenza dei percorsi, delle provenienze. Ma proprio qui sta la sua forza: nella “convivialità delle differenze”.
Per questo si è scatenata una repressione che ha tentato di spezzare questa ricerca di confronto che, allora come oggi, fa paura a chi comanda e governa la globalizzazione dei mercati e dei profitti: meglio convincere le persone che è più utile rincoglionirsi da soli di fronte allo schermo di un computer, non per cercare l’altro, ma per isolarsi e incattivirsi nei confronti di chi non la pensa come te. In questa ottica bisogna leggere la matrice della repressione nei confronti del Movimento: la volontà di spezzare un legame tra diversi che rischiava di farsi troppo pericoloso per il Potere, di spezzare quella saldatura prima che si consolidasse, di rompere quel sodalizio che rischiava di diventare veramente ‘sovversivo’.
Genova 2001. Oggi
Dal 2001 le cose sono cambiate parecchio. Ma vent’anni non sono bastati a farmi ricredere che un altro mondo sia veramente possibile.
A Genova si capì che la bellezza del Movimento non erano le manifestazioni partecipate e ben organizzate, ma l’azione concreta di tanti nel quotidiano e dovunque. E allora, per le tante anime del Movimento l’utopia giorno per giorno si è fatta speranza, ha acquistato man mano concretezza. Si è capito che “l’altro mondo possibile” non è lontano anni luce, ma sempre più a portata di mano. Ogni giorno bisogna mettere un mattone per la nuova casa, inserire un tassello nel mosaico di un domani migliore per tutti.
La vera conquista è quella che ciascuno fa nel quotidiano, ogni volta che nasce un’associazione, un gruppo che s’impegna profondamente nel sociale, per dare il proprio contributo a cambiare questo mondo. Gli indigeni del Chiapas ci hanno insegnato che per cambiare le cose ci vuole tempo, tanto tempo, e fatica, tanta fatica, lontano dai riflettori, perciò essi mettono gli orologi un’ora indietro per avere più tempo e sentirsene padroni, e spesso “spariscono” per mesi nella selva, per discutere e confrontarsi con tutti e progettare il futuro senza l’incubo difare tutto subito, ad uso dei media.
A distanza di vent’anni, rimangono in piedi tutte le ragioni che portava avanti il Movimento. Basti pensare alla vicenda dei vaccini anti-Covid, sviluppati da case farmaceutiche multinazionali foraggiate anche con soldi pubblici, ma che non distribuiscono le dosi con giustizia e speculano squallidamente sulla salute della gente. Quella “no global” è stata una battaglia giusta, ma l’11 settembre 2001, con l’attacco alle Torri gemelle, ha ridotto ogni possibilità di opporsi. Comunque sarebbe stato stupido creare una vuota ritualità. Un movimento va avanti perché cresce, cambia. E il Movimento è mutato, insinuandosi tra le pieghe delle contraddizioni del nostro tempo; si è incanalato in mille rivoli per impegnarsi in modi e ambiti nuovi, e contribuire così a costruire l’altro mondo possibile, il mondo-altro necessario.
Oggi anch’io faccio cose che sono conseguenza delle scelte di allora: mi occupo della mensa dei poveri e del dormitorio dei senza fissa dimora, e curo la distribuzione dei pacchi alimentari alle famiglie svantaggiate irpine. Mi sforzo di farlo con umanità, anche se a volte bisogna “disobbedire” alle regole quando queste cozzano contro l’umanità e il buon senso; bisogna avere il coraggio di disattenderle quando, pur di permettere ad un migrante di restare in Italia, certifico che sta facendo la preparazione al battesimo – che dura tre anni – così per un po’ di tempo non ha problemi, e poi pazienza se resta mussulmano. E per fortuna la Questura non fa accertamenti, altrimenti dovrei dimostrare dove ospito tutti i migranti ai quali ho fornito l’attestato di ospitalità! Sant’Agostino diceva che quando una legge è ingiusta, disobbedire è un dovere. Altri del Movimento provano, per quanto possibile, a sanare le ingiustizie, a salvare i migranti in mare, ad aiutare chi, nelle periferie reali o esistenziale, è in difficoltà.
Ed è bello darsi il cambio con i più giovani: ragazzi che si occupano di riscaldamento globale o di acqua pubblica, annodandosi al filo rosso che lega le generazioni. Altrimenti diventeresti una specie di mestierante della protesta. Non è che ti tiri fuori, fai altro, ti affianchi ai più giovani e diventi un testimone di quello che è successo vent’anni fa e che potrebbe accadere ancora.
Genova 2001. Domani
“Il Vecchio Antonio aveva scritto, in grandi lettere: se non puoi avere la ragione e la forza, scegli sempre la ragione e lascia che il nemico si tenga la forza. La forza può vincere in molti combattimenti, ma in tutta la lotta solo la ragione può prevalere. Il potente non potrà mai cavare la ragione dalla sua forza, noi sempre potremo ottenere la forza dalla ragione”. Già, la ragione: la nostra arma nonviolenta con la quale possiamo difenderci dalla marea montante di stereotipi, cattiverie, razzismo, preconcetti e pregiudizi, con la quale dobbiamo smontare i meccanismi delle propagande di regime, delle viziosità ideologiche, con la quale siamo in gra- do di contrastare la violenza che si alimenta di istinti viscerali. O forse non lo sappiamo ancora tutti, non lo sappiamo ancora bene che il sonno della ragione – come l’assopirsi dell’umanità che è in noi – genera mostri?
A mo’ di conclusione
“Però c’è un animaletto che quando incontra il leone non gli presta attenzione e continua per la sua strada. E se il leone gli dà una zampata lui risponde graffiando con le sue zampine, che sono davvero piccole. E questa bestiola non si arrende al leone perché non si accorge di essere guardata … è cieca. “Talpe” si chiamano questi animaletti. La talpa rimase cieca perché invece di guardare fuori, prese a guardarsi nel cuore, a guardarsi dentro. E dunque non si preoccupava di forti o deboli, di grandi o piccoli, perché il cuore è il cuore e non si spaventa come si spaventano gli animali. Ma questa cosa del guardarsi dentro era permesso farla solo agli dei, e quindi gli dei castigarono la talpa e non lasciarono più che guardasse fuori e la condannarono a camminare e a vivere sotto terra. Ma essa non ne soffrì nemmeno un po’ giacché continuò a guardarsi dentro. Ecco perché la talpa non ha paura del leone. E non ha paura del leone neppure l’uomo che sa guardare nel suo cuore. Perché l’uomo che sa guardare nel suo cuore non vede la forza del leone, vede la forza del suo cuore e quindi fissa il leone, e il leone vede che l’uomo lo sta guardando; e il leone si accorge, guardando nello sguardo dell’uomo, di essere solo un leone, e il leone si vede guardato, e ha paura, e scappa via”. (Subcomandante Marcos)
* Vitaliano Della Sala, nato a Mercogliano (Av) nel 1963, è prete cattolico dal 1992; diviene parroco di Sant’Angelo a Scala, un piccolo paese irpino, fino al 2002 quando viene rimosso dalla parrocchia e sospeso a divinis perché vicino al movimento noglobal e per aver partecipato al Gay Pride del 2000 a Roma. Tutta la sua Comunità parrocchiale prote– sta contro il provvedimento. Ha partecipato a mani- festazioni per la pace e a missioni umanitarie. Oggi è parroco nel suo paese natale e vice direttore della Caritas diocesana di Avellino.
Foto in apertura di cesar bojorque da flickr.com