Vittoria o tramonto dell’Occidente?
Angelo d’Orsi*
Quando Oswald Spengler pubblicava il suo memorabile libro Il tramonto dell’Occidente (Der Untergang des Abendlandes, in due volumi, 1918-1922, ma in edizione definitiva, ampiamente riveduta, nel 1923), l’Europa e il mondo sono appena usciti dalla catastrofe della “Grande guerra”, il primo esempio di guerra tendenzialmente totale, che si sarebbe poi pienamente dispiegato qualche anno più tardi, con il Secondo conflitto mondiale, capace di portare a compimento il “modello” del precedente conflitto, specialmente nella guerra ai civili, oltre che alle infrastrutture.
Quella guerra del ’14-18 era stata la conferma non del tramonto, già preconizzato da Friedrich Nietzsche, profeticamente, nel senso della ineluttabile decadenza del suo e nostro mondo, e ciò nel momento in cui la Prussia era all’auge della storia europea, ma piuttosto, ritornando a Spengler, l’avvio del tramonto del tramonto, se vogliamo usare questa espressione (di Massimo Cacciari): l’inizio della vera e propria catastrofe della zivilisation occidentale.
L’idea centrale di Spengler, in fondo seguendo una tradizione di pensiero che risale addirittura a Polibio, con la sua teorica dei cicli storici, è che nell’antichità dopo la fase ascensiva rappresentata dalla civiltà greca, v’era stata la fase di decadenza, dispiegatasi nella romanità. Nell’epoca contemporanea a Spengler ma vale tanto più per la nostra, noi occidentali stavamo vivendo la medesima trafila, ripercorrendo lo stesso tragitto della romanità, specialmente la Roma imperiale, la Roma dei Cesari. Siamo in un momento in cui la crisi della civiltà si esprime in un cesarismo di seconda mano, vuoto di contenuti: il cesarismo come espressione della nostra decadenza. In altri termini Spengler denuncia la decadenza, ma non chiude alla speranza di una ripresa, di una rinascita, in fondo secondo il meccanismo della tragedia classica, nella quale, dopo che si è toccato il punto più basso della sofferenza e della vergogna, si apre la speranza nella risalita, nel mondo nuovo, in quella umanità che si ricompone, in quegli individui che da quel dolore possono infine risorgere.
L’IDEOLOGIA OCCIDENTALE
Nel terzo millennio dell’Era Volgare (che noi occidentali con superbia chiamiamo “dopo Cristo”, come se tutta l’umanità si riconoscesse nel calendario imposto dalla religione appunto “cristiana”), l’ideologia occidentale ritiene di essere la sola valida carta di identità dell’umanità, l’unico passaporto ammesso tra i viventi sul pianeta Terra, per farli sentire pienamente cittadini, padroni del mondo. Non è bastata la “seconda guerra dei trent’anni” (1914-1945), a far crollare la hybris occidentale, non sono bastate le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, né l’oscena tragedia di Auschwitz a indurre a una seria riflessione sui limiti (e le responsabilità) dell’Occidente: o meglio ciò è avvenuto, sia pure in maniera insufficiente, soltanto a livello di riflessione filosofica, mentre è mancato un dibattito pubblico, sono mancate le prese di coscienza delle classi politiche, e di conseguenza il farsi strada di un orientamento critico e autocritico, volto a evitare gli errori e gli orrori del passato; anzi abbiamo assistito a opportune rimozioni delle fette più sgradevoli della nostra storia, o persino interessate, furbesche “revisioni” che sono servite a rafforzare in quella ideologia occidentale la convinzione di interpretare la parte dei vincenti della storia.
Quasi un secolo dopo Spengler, nel 1992, un intellettuale italiano, il compianto Alberto Asor Rosa, pubblicava un piccolo libro, Fuori dall’Occidente, che come chiariva il sottotitolo, era un Commento all’Apocalissi, in riferimento al testo vergato da Giovanni l’Evangelista, due millenni avanti: un testo visionario, inquietante. Asor Rosa ripercorreva le parole incendiare di Giovanni, ma le connetteva al nostro tempo, le adattava alla situazione verificatasi nel mondo dopo il 1989, ossia all’indomani del “crollo”. Più precisamente dopo l’avvio della prima guerra dell’era post-bipolare, nel Golfo Persico, poi denominata “Prima Guerra del Golfo”, con la quale, fra l’agosto 1990 e il gennaio 1991, la guerra ritornava, prepotentemente, al centro del dibattito pubblico. Asor Rosa, quasi vestendo i panni di Giovanni Evangelista scriveva, alludendo alla mappa geopolitica globale, post-‘89, il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, scriveva:
Il nuovo ordine sarà tempestoso e terribile. È completamente sbagliato pensare che l’Unum imperium, unus rex fondi un principio di pace. (…) Scorreranno fiumi di sangue, non si avrà pietà per nessuno. La guerra sarà un elemento fondante e continuo, pre-supposto, del nuovo ordine.
Il “crollo”, in verità, quando Asor Rosa scriveva, non era completato: lo sarebbe stato nell’arco del biennio succeduto alla forzata apertura del Muro, alla porta di Brandeburgo, la sera del 9 novembre 1989, e si sarebbe concluso ben più drammaticamente con le dimissioni di Michail Gorbacev, lo scioglimento del PCUS, e la fine dell’URSS, decretata, contro la volontà dei suoi cittadini (che si erano espressi a larghissima maggioranza per la conservazione dell’Unione), da sei persone. Il fatto merita una precisazione: l’8 dicembre 1991, in una località di confine tra Bielorussia e Polonia, Belavezskaja Pusc (Belaveza), all’interno di una dacia, quei sei decisero, con quelli dei popoli fino ad allora “sovietici” i destini dell’intero mondo. Erano Sono Boris Elc’in, il suo segretario di Stato Gennadij Barbulis, il presidente della neonata Ucraina Leonid Kravcuk e il primo ministro Vitol’d Foin, il presidente della Bielorussia Stanislavo Suskevic e il primo ministro Vjaceslav Kebic. Quegli uomini approvarono un documento redatto da Barbulis (già insegnante di marxismo-leninismo a Mosca!) nel quale liquidarono per sempre l’URSS: ebbene oggi possiamo affermare che il sospetto che i sei fossero al soldo dell’Occidente è tutt’altro che infondato. Tre settimane dopo, il giorno 28 dicembre, in un secondo rendez-vous, ad Alma Ata, negli Urali, battezzarono la CSI, la “Comunità degli Stati Indipendenti”, peraltro destinata a durare l’espace d’un matin. Fu quella, a detta di Vladimir Putin, la “più grande catastrofe politica del XX secolo”. Ed è difficile dargli torto.
In forza di ciò veniva meno, nel quadro internazionale, uno dei due antagonisti, e di conseguenza perdeva di significato la figura del “terzo”, ossia l’arbitro: in concreto, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che esattamente da quel momento, entrò in crisi. L’Occidente aveva vinto la guerra fredda, e non mostrava alcuna intenzione di appeasement con quella metà del mondo che non era Occidente: Occidente, si definiva sempre più chiaramente come una nozione non semplicemente geografica, ma geopolitica, socioeconomica, ideologica, come del resto aveva chiarito Antonio Gramsci, contrapponendo Occidente a Oriente.
Sul limitare del secolo, dunque, l’Occidente vinceva: vinceva non soltanto per capacità militari (ostentate più che dimostrate concretamente), non soltanto per potenza economica (la Cina stava crescendo su quel piano, ma non era ancora in grado di competere), ma per forza della persuasione, espressa attraverso uno eccezionale sistema egemonico planetario. L’Occidente si arrogava il diritto non solo di dispensare vita e morte, di attribuire premi e castighi, e anche quello di rappresentare le proprie guerre, e se non erano vittoriose le si faceva diventar tali: l’Occidente esercitava il controllo dell’informazione, o meglio della comunicazione, eliminando il nesso tra fatti e informazioni.
La vittoria dell’Occidente, in sintesi, venne costruita ampiamente sulle false notizie, sulla vera e propria invenzione di fatti inesistenti, sull’edulcorazione o sulla banalizzazione di eventi ritenuti scomodi, ovvero sul loro occultamento o sull’esagerazione, dei fatti di segno opposto. Facciamo un esempio su tutti, la cosiddetta “strage di Timisoara”, evento decisivo per la caduta, sanguinosa, di Nicolae Ceausescu in Romania, un autentico falso storico dell’intero secolo, nel quale l’Occidente confondeva finzione e realtà, cinema e fantasia, comunicazione e informazione, o disinformazione. Con quell’evento mai accaduto, la propaganda di guerra faceva un passo avanti straordinario, al punto da cambiare quasi la propria natura e il proprio ruolo, diventando parte essenziale del conflitto che l’Occidente, inteso come il piccolo quanto ricco e potente Nord aveva iniziato a condurre contro il Sud, esteso quanto povero e deprivato politicamente.
Alla periferia del sistema sovietico, in un paese minore del Patto di Varsavia, nel diffondersi di agitazioni anticomuniste che miravano a frantumare quel sistema, e regime change tutto sommato indolori in Paesi come Ungheria, Cecoslovacchia (destinata, nella logica etnica della frammentazione, a dividersi in due) e Bulgaria; in Romania non andò così. Il conducator Ceausescu era riuscito a bloccare ogni minimo accenno di rivolta sia con il ricorso alle forze militari e alla polizia regolare, sia attraverso quel temibile braccio secolare del potere, chiamata “Securitate”, la polizia segreta. A Timisoara fu difficile contenere le proteste, che produssero morti e feriti, tra i manifestanti e gli agenti. Ma in quei giorni di fine dicembre ’89, giungeva una notizia dell’agenzia di stampa MTI, secondo la quale un ignoto viaggiatore aveva assistito a un terribile massacro da parte delle milizie nella cittadina romena: le cifre si gonfiarono immediatamente e si parlò di migliaia di morti e di fosse comuni in cui erano stati gettati i poveri corpi. La notizia (il cui fatto nessuno aveva verificato) si arricchì di macabri dettagli, con una tipologia di racconto che tante volte successivamente le centrali del potere mediatico avrebbero riprodotto, fino a Bucha in Ucraina nel 2022, e agli eventi al confine tra Gaza e Israele, del 7 ottobre 2023.
Nell’epoca delle immagini, le “notizie” non potevano limitarsi alle parole scritte, ed ecco infatti, che il sistema mediatico provvide, mostrando corpi ignudi, torturati, sul suolo gelido di campi innevati della Romania. Come in casi analoghi (il più celebre è il cormorano imbrattato di petrolio, agonizzante, di cui venne data la colpa a Saddam Hussein, nel 1991, per poi scoprire che la foto era del 1983 e faceva riferimento a un’altra guerra, quella tra Iraq e Iran…), una immagine su tutte prevalse, diventando il “logo” della “strage”. Si trattava del corpicino inerte di una bambina che giaceva sul ventre di un cadavere femminile; si fece intendere che erano madre e figlia e addirittura si parlò di corpi sventrati, con estrazione di feti dagli uteri materni e un vario e vaso campionario dell’orrore.
Fu il colpo decisivo che fece crollare il regime dei coniugi Ceausescu, arrestati e sottoposti, ipso facto, a una sorta di processo degno di un film di cowboy, con un improvvisato tribunale speciale, autonominatosi, che emise in pochi minuti una sentenza di morte, immediatamente eseguita a colpi di kalashnikov, mentre la coppia tentava invano di fuggire e poi di proteggersi con le mani dai colpi di mitra. Una delle scene più orribili del nostro tempo: era il giorno di Natale del 1989. A Timisoara, però, caduto il regime, si recarono troupe di reporter che non trovarono traccia di cadaveri, né fosse comuni o simili. E la confessione del guardiano di un cimitero tolse ogni dubbio: quei cadaveri che avevano involontariamente messo fine al potere di Ceausescu, erano corpi esumati da un cimitero dei poveri e che le ferite presente sui corpi erano segni delle autopsie, e la bimba era morta per una banale congestione, e la donna su cui il suo corpo era poggiata era un’anziana scelta a caso da coloro che avevano messo in scena il tutto, probabilmente una troupe occidentale, su mandato o con la complicità degli oppositori interni. Il filosofo Giorgio Agamben, commentando, affermò: “Ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta non-verità. Era tuttavia autentificata come vera dal sistema mondiale dei media”. L’Occidente validava la menzogna, o cancellava semplicemente la differenza tra menzogna e verità, tra verità e falsa verità, e si arrogava il diritto, tacitamente confermatogli da quella che veniva chiamata “opinione pubblica”, di decidere quale era la verità e quale il suo contrario.
LE RAGIONI DI UN FALLIMENTO
Il fatto è che, dopo il “crollo” del 1989, le cose procedettero ben diversamente dalla previsione semplicistica di Francis Fukuyama, il quale aveva teorizzato la fine della storia, intesa come fine del conflitto, e come avvio di un’epoca di pace durevole e di indefinito progresso per il mondo. In verità, il biennio ’89-’91, nell’ideologia occidentale aveva significato non la fine della guerra fredda, bensì la “vittoria dell’Occidente”. E i protagonisti di tale ideologia intendevano quella vittoria non come un punto d’arrivo, bensì come una tappa, un punto di partenza verso altre mete, cioè altre conquiste. Non Fukuyama, ma piuttosto Samuel Huntington fu il vero protagonista con la sua tesi sullo “scontro di civiltà”, a metà degli anni Novanta. L’idea della inevitabilità (e della opportunità) dello scontro totale, non fra Stati, ma, appunto, fra “civiltà”: un Occidente che incarnava l’essenza dei wasp (White Anglo-Saxon Protestant) per Huntington e il loro predominio necessario, specie sul nuovo nemico, l’islamismo, una volta venuto meno l’antagonista storico, il “comunismo”. Huntington era esponente del pensiero reazionario annidato nella prestigiosa università di Harvard, negli Usa, un think tank che lavorava in parallelo a quanto si faceva a Chicago, sul piano delle teorie economiche, ultraliberiste, seguendo i dettami di Milton Friedman, e altri. L’egemonia occidentale si è costruita non esclusivamente ma innanzi tutto lungo l’asse geografico e ideologico fra New York e Chicago.
Ma la Prima guerra del Golfo fu la prima anche per un altro aspetto, ossia la definizione (che sarebbe diventata più chiara e limpida successivamente) di un “Occidente” che si erge, quasi angelo vendicatore, contro il “resto del mondo”. Un Occidente sintesi geografica e politica e ideologica di quella parte di mondo che si stava facendo sottomettere dal neoliberismo sul piano della ideologia, dal turbo-capitalismo su quello economico, con l’esplicitazione del Mercato come unica divinità da adorare, del Dollaro come unica valuta ammessa, dell’american way of life come unica “vera” cultura, solo modello antropologico da seguire.
In questo Occidente si andava definendo una triade politico-militare costituita dagli Stati Uniti, dall’Alleanza Atlantica ormai sempre più semplicemente NATO (ossia il suo braccio militare), e della Gran Bretagna, che ha sempre fatto parte a sé, e ha svolto, al di là dei cambiamenti di governi all’interno, un ruolo di comprimario ma anche di avamposto della ex nazione-madre, gli USA. Dell’Occidente entrava a far parte, subito, Israele, che in Medio Oriente rappresentava una posizione simile a quella del Regno Unito verso gli USA. Un paese sottomesso che era sempre in forte tensione con la nazione-madre, la quale, in ambedue i casi era il “padrone-padrino” yankee.
Asor Rosa, ritornando al suo aureo libretto del 1992, indicava, lucidamente, nel concetto geopolitico e ideologico di “Occidente”, il blocco di potere finanziario, mediatico, militare: una nuova versione del military-industrial complex denunciato da Dwight Eisenhower nel gennaio 1961, nel suo discorso di addio alla Casa Bianca. Riprendendo lo stile narrativo-allusivo dell’Apocalissi, Asor Rosa profetizzava una catastrofe, ma per oltrepassarla suggeriva una necessità: uscire dall’Occidente, appunto.
Si noti che da tutt’altra sponda, quella dei più avvertiti esponenti dell’intelligencija cattolica, la Societas Jesus, nel suo organo ufficiale, “La Civiltà Cattolica”, esprimeva la ripulsa di un Occidente inteso quale orizzonte di ogni valore, accanto alla vibrata e argomentata denuncia dei guasti di un sistema nel quale persino l’etica pareva posta al servizio del profitto e dell’ordine costituito (ordine giudicato come palesemente ingiusto), e si ribadiva che la guerra, per la sua natura di distruttività totale, e per la stessa rinuncia anche al diritto costituito, non poteva più ambire ad essere riconosciuta sotto la categoria, in uso nella dottrina cattolica, della “guerra giusta”; eppure, all’interno del mondo laico si era appunto fatto ricorso, inopinatamente, e stoltamente, a quella categoria o suoi surrogati.
Vale la pena di rammentare, con un rapidissimo flash back, gli eventi dell’Indocina, che nel dopoguerra videro il confronto armato tra Occidente e resto del mondo: se la Guerra di Corea terminò in certo senso senza vincitori né vinti, quella in Vietnam si concluse con una doppia disfatta, prima della Francia nel 1954, nella battaglia di Dien Bien Phu, la prima sconfitta di una potenza coloniale occidentale, dunque di altissimo valore simbolico, e quindi degli Stati Uniti, vent’anni dopo, con la precipitosa fuga dell’invasore statunitense e la caduta del regime fantoccio degli occidentali insediato nel Sud del paese. L’Occidente che non soltanto tentava di esercitare un controllo politico, commerciale e militare in aree extra-occidentali, ma si spingeva molto oltre. Era la volontà di totale subordinazione, all’insegna di un non detto che in sostanza era l’idea della superiorità morale, che in una certa parte della narrazione occidentale assume addirittura tratti religiosi (con l’abbondante ricorso a un termine come “destino”).
La più rilevante delle acquisizioni del dibattito scatenato dalla Guerra del Golfo era stata proprio la comparsa del lemma “Occidente”, oggi centrale nelle argomentazioni degli ideologi dello schieramento euroatlantico.
Allora, come oggi, la voce di chi precisava il dovere di restare al di sopra della mischia (ma non al di fuori) veniva sommersa non solo dai corifei della “potenza di fuoco” americana, ma altresì dagli ammiratori dell’Occidente. Esaltare l’Occidente significava elevare peana alla sua tecnologia, di cui le armi erano una delle tante esemplificazioni, la più vistosa probabilmente. La tecnologia, a ben vedere, costituì il vero oggetto della contesa tra intellettuali pro e contra la Guerra del Golfo. E gli sviluppi dei decenni seguenti, avrebbero esaltato a dismisura il ruolo della tecnologia. La guerra dei primi decenni del Secolo XXI sarebbe stata essenzialmente la guerra dei droni. La deresponsabilizzazione dell’umano diventava un tratto sempre importante delle nuove guerre.
Nel ‘90-91 si tratta di coloro che vedono la guerra contro Saddam come l’attesa rivincita per gli USA, e dunque per l’Occidente, della sconfitta del Vietnam, e, contemporaneamente, come un’occasione per una prima resa dei conti con l’islamismo, che sembra sostituire, come spettro che si aggira per il mondo, quello del comunismo; poi, il “partito della geopolitica”, ossia coloro che, pur non escludendo condanne delle “atrocità” e delle intrinseche ingiustizie di ogni guerra, insistono sull’inevitabilità politica e “morale” dell’intervento, per le responsabilità dell’Occidente, che non può farsi tenere in scacco da un tiranno di periferia come l’arabo e islamico Saddam, ma deve tutelare i propri legittimi interessi in un’area vitale dal punto di vista strategico e da quello economico; tutto ciò tanto più in un momento in cui il sistema internazionale sta lasciando cadere il modello bipolare.
Mette conto osservare che, accanto all’inatteso recupero del concetto di “guerra giusta”, si introduceva un elemento che avrebbe avuto decisiva importanza nelle successive guerre nuove: la guerra contro Saddam era condotta in nome dei princìpi della democrazia contro l’autocrazia; l’esportazione della democrazia sarebbe divenuto il tema portante della ideologia occidentale nelle guerre degli anni Novanta.
Si affacciava, in modo via via più esplicito. il discorso della superiorità dell’Occidente, e di conseguenza il suo diritto a dirigere la nave dell’umanità, decidendo le mete, gli strumenti, gli attori, decidendo in sostanza i destini del mondo, senza limiti, senza leggi, se non quelle della pura forza.
Gli eventi successivi alla Guerra del Golfo, dalla Somalia al Congo dall’Afghanistan all’Iraq, senza dimenticare il sanguinoso decennio di conflitti che dilaniarono la Jugoslavia, avrebbero dato ragione al pessimismo di Asor Rosa, a cui finiva, nelle settimane del conflitto, per avvicinarsi lo stesso Bobbio, disgustato degli sviluppi di quella che avrebbe dovuto essere una rapida e quasi indolore “operazione chirurgica”. Il “realismo politico” si mostrava di una straordinaria ingenuità anche pericolosa, se coniugato a grandi petizioni di principio, a cominciare da quella sottesa al concetto di guerra giusta. Che venne ulteriormente proposto e rafforzato per giustificare la più ingiustificabile guerra del decennio, la guerra del Kosovo, che chiuse il decennio, il secolo e il millennio.
Quel conflitto, clamorosamente ineguale, in parallelo alla costituzione di una Santa Alleanza anticomunista e antisocialista, e specificamente anti-slava e specialmente anti-serba, comprendente ben 19 Stati (contro uno), si costituiva una coalizione intellettuale, unita sotto il segno, di nuovo, della “guerra giusta”. A maggior ragione fu etichettata come tale, in quanto diretta contro una nazione che, in epoca di smantellamento delle ultime vestigie del socialismo, si proclamava orgogliosamente socialista, nel cuore dell’Europa. Era la guerra alla “anomalia jugoslava”, guerra da combattere nel ricordo vivificante della più giusta delle guerre, quella contro il nazifascismo. L’Occidente non poteva tollerare smagliature nel proprio sistema di valori, nella propria auto rappresentazione come di un insieme compatto ideologicamente e non solo economicamente e politicamente: la forza delle armi doveva avvalorare tale linea.
Il conflitto di fine decennio si poneva in continuità con quello d’inizio decennio, chiudendo il cerchio. L’Occidente stringeva nelle sue mani il potere di vita e di morte, ma anche quello di rappresentare (e di commercializzare) la vita e la morte: il volto unico della morte, al di là delle innumerevoli sue espressioni, e le mille vite di chi alla morte cerca di resistere. Il meccanismo propagandistico non può accettare l’idea che tutti i morti sono eguali, così come lo sono i vivi. La propaganda deve scavare un fosso tra gli uni e gli altri, deve giustificare la morte e la distruzione, deve convincere la propria opinione pubblica. Il massacro in corso a Gaza, e in forma minore nei Territori Occupati, lo sta dimostrando in modo osceno. I morti israeliani meritano onoranze da eroi, e servizi giornalistici elegiaci, i morti palestinesi non vengono neppure considerati, se non in blocco; e la stessa logica della “rappresaglia” e poi dello scambio, evidenzia una disparità inaccettabile; del resto le autorità israeliane senza infingimenti, ma anzi con proterva arroganza, hanno dichiarato i palestinesi, gli arabi in genera, sono “animali non umani”. È la medesima logica, il punto d’arrivo, ahimè probabilmente provvisorio, del predominio egemonico dell’Occidente, e delle scelte delle sue classi dirigenti.
Dieci anni dopo il suo ragionamento sull’Apocalissi di Giovanni, Asor Rosa riprendeva quel saggio e lo faceva diventare un capitolo di un nuovo libro, sul tema guerra, la guerra nuova che aleggiava sinistramente sul mondo, dopo che un’altra catastrofe, quella del socialismo reale, si era consumata definitivamente, o così almeno pareva. E un intero decennio di nuove guerre, di guerre totali, guerre non dichiarate, guerre iniziate e non concluse, guerre all’ambiente, guerre ai civili, guerre, soprattutto, asimmetriche o ineguali. E in definitiva guerre che nascevano dalla rinuncia implicita a seguire i precetti di Ugo Grozio, con la duplice categoria del diritto di guerra, lo ius ad bellum, e lo ius in bello (1625, De iure belli ac pacis). Quel libro era la summa della civiltà giuridico-politica occidentale, ma era stato semplicemente espunto dalla logica politica e dal paradigma comunicativo dell’Occidente, rimosso, cancellato, in una sorta di delirio di onnipotenza fondata non più sull’egemonia, che stava scemando drasticamente, ma sul mero dominio, ossia il ricorso alla forza militare. Basti riflettere pur fuggevolmente sull’azione sterminatrice contro i palestinesi da parte di Israele, quell’enclave dell’Occidente in partibus infidelium, che si presenta come portatore di luce nelle tenebre, la luce della civiltà contro le tenebre della barbarie. Era l’abbandono delle proprie radici, non soltanto quelle del cosmopolitismo ebraico, ma specialmente del razionalismo occidentale: una sorta di seppuku, con il quale lo stesso Occidente, mentre ostentava i propri muscoli, rinunciava all’elemento cruciale della propria storia, la ragione critica, quella che dall’umanesimo porta al Secolo dei Lumi, e alle grandi filosofie ottocentesche. Il “Sapere aude!” motto della identità illuministica, ossia del pensiero critico (“abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!”) secondo Immanuel Kant – proposto come uno dei padri putativi dell’Europa e dunque della civiltà occidentale – veniva affondato, cancellato da coloro che avrebbero dovuto esserne i guardiani e i custodi. A dispetto del tripudio della potenza militare, dell’orgia comunicativa, del trionfo del libero mercato, era la più clamorosa ammissione di un fallimento, il fallimento dell’Occidente.
*Angelo d’Orsi, storico, già Ordinario di Storia del pensiero politico nell’Università di Torino, ha pubblicato oltre 50 volumi. Ha fondato e dirige due riviste: “Historia Magistra” e “Gramsciana”. Svolge una intensa attività come conferenziere e come opinionista